«La situazione umanitaria dei civili nel Ghouta orientale è sempre più fuori controllo». Lo ha dichiarato Panos Moumtzis, coordinatore regionale Onu per la crisi siriana – attraverso una nota diffusa dal quartier generale dell’Onu. Le Nazioni Unite sono oramai nel mezzo di una vera e propria crisi d’identità e ridotte ad assomigliare maggiormente a un ufficio stampa che notifica le tragedie e le crisi umanitarie nel mondo piuttosto che esercitare le proprie prerogative descritte negli artt. 1 e 2 del proprio Statuto. Una crisi politica e di mission, molto simile a quella che decretò la fine dell’esperienza della Società delle Nazioni nel 1945, ma anche morale, almeno a giudicare dalle diverse e sempre più numerose critiche e denunce come quella recentemente formulata da Annie Sparrow e pubblicata su Foreign Policy. Nel mentre con l’offensiva nella regione di Idlib – che doveva servire da zona di deterrenza in cui trasferire elementi dell’insurrezione e sfollati interni – il regime di Damasco, forte del sostegno dell’Iran, intende schiacciare ciò che resta della ribellione democratica. Alla quarta notte di assedio i residenti di Ghouta, il distretto ribelle a est di Damasco che ha già visto 50 bambini annientati in un pugno di ore, guardano con ansia a soccorsi della Croce Rossa che possano finalmente entrare fra le macerie. Finora i morti sono oltre 300, più di 1.500 i feriti, si tratta del più feroce attacco in sette anni di guerra, definito da The Guardian un massacro simile a quello di Srebrenica. C’è bisogno di una tregua, un cessate-il-fuoco, che consenta un canale umanitario per l’evacuazione dei feriti, dei bambini e dei civili in fuga.
Ma se la situazione umanitaria più grave è proprio a Ghouta, è ad Afrin che rischia di innescarsi una guerra regionale, fra Stati e non più fra milizie alleate: la Russia cerca di mediare fra Turchia e governo siriano e invita ad aprire un canale di dialogo per evitare un confronto militare diretto ad Afrin; le forze di Ankara sono avanzate ancora su tutti e tre i lati della frontiera fra Turchia e il cantone di Afrin, enclave ad ora sempre controllata dai curdi dello Ypg, le Unità di protezione popolare. Si avvicina – ora dopo ora – il momento dell’assalto alla cittadina, dove sono rifugiati fino a 200mila sfollati da altre zone siriane.
Come già durante la battaglia ad Aleppo Est, nel 2016, il mondo sembra incapace di difendere i civili, così come di spegnere l’incendio ormai divampato e che potrebbe estendersi pericolosamente a Israele e Iran.