C’è un buco nero, nella fase più recente di una storia – quella israelo-palestinese – che sembra infinita e senza soluzione. C’è un buco nero, e si chiama Gaza. Ritorna come un fastidioso post-it in evidenza sulla nostra scrivania, sull’agenda politica, quando il sangue torna a scorrere. È allora, proprio in quel momento, che siamo costretti a ricordarci di Gaza e a prendere posizione.
È successo il 30 marzo con la terribile conta di morti e feriti palestinesi in quella che è stata chiamata la Grande Marcia del Ritorno, quando decine di migliaia di abitanti di Gaza si sono mostrati lungo il reticolato che separa la Striscia da Israele. Non è la prima volta che ci accorgiamo di Gaza quando a risuonare sono le armi. È solo l’ennesima volta in una decennio scandito dalle imponenti operazioni militari dentro la Striscia. 2007-2008: Operazione Piombo Fuso. 2012: operazione Colonna di Difesa. 2014: operazione Margine di Protezione. Operazioni militari israeliane giustificate dai razzi che le fazioni armate palestinesi hanno lanciato sul territorio israeliano. Operazioni che hanno colpito non solo le installazioni militari nella Striscia, ma soprattutto i civili, le prime vittime delle guerre di Gaza.
La differenza tra la manifestazione del 30 marzo e le guerre di Gaza è l’assenza di armi da parte palestinese. I 18 morti e i 1400 feriti sono stati colpiti in poche ore dai cecchini dell’esercito israeliano, appostati al di là del reticolato. Senza alcun contatto diretto tra manifestanti e soldati. Non ci sono stati ‘scontri’, non c’è stata ‘guerriglia’. Non è stata una ‘battaglia’. Eppure queste parole, per nulla neutrali, sono state usate in una narrazione giornalistica che si è diffusa non solo in Italia, ma in Europa e negli Stati Uniti. E le narrazioni sono importanti, nella storia israelo-palestinese: orientano l’opinione pubblica, definiscono il colpevole, i buoni e i cattivi.
Non si può mirare ai civili, ucciderli con fucili di precisione, colpire dimostranti che portano una bandiera palestinese o si mettono a pregare dentro il territorio di Gaza. Israele deve rispettare le convenzioni internazionali tanto quanto devono fare gli altri Stati che compongono una comunità internazionale riunita nel consesso delle Nazioni Unite. Lo ha detto a chiare lettere l’associazione israeliana per la difesa dei diritti, B’Tselem, in una lettera indirizzata ai soldati in cui, in modo dettagliato, spiega perché i militari possono rifiutarsi di eseguire un ordine.
Il nodo di fondo è, però, un altro. È il buco nero di Gaza. Per i politici israeliani, e nei fatti per la comunità internazionale tutta, Gaza deve rimanere invisibile. Al di là del muro. Lo scandalo è proprio nel mostrarsi, nell’irrompere nella cronaca con corpo e faccia al di là del reticolato. È questo il pericolo allo stesso tempo reale e immaginario: le decine di migliaia di persone che si avvicinano alla rete che separa Gaza da Israele riportano la Striscia nella storia israelo-palestinese. Proprio in una fase in cui Gaza era stata espunta. Tutte le discussioni su una possibile (e remota) soluzione del conflitto israelo-palestinese mettono in un cassetto Gaza, e si occupano solo di Israele e Cisgiordania. Come se fosse una terra persa da tutti, e che nessuno vuole.
Non è così. Gaza esiste. E vederla, attraverso i suoi abitanti al di là del reticolato, rende noi tutti colpevoli. È la vergogna che non possiamo sopportare, nel momento in cui riconosciamo negli altri, i palestinesi di Gaza, noi stessi. Esseri umani.