Un voto significativo per la Spagna, e anche per l’Europa. Le elezioni spagnole del 28 aprile hanno lasciato pochi margini di dubbio per quanto riguarda l’interpretazione dei risultati: le hanno vinte i socialisti, il Pp di Pablo Casado ha conosciuto un tracollo senza precedenti, Ciudadanos è uscito rafforzato, Podemos indebolito, senza che si sia prodotto il temuto sfondamento di Vox. Se si considera che il Psoe, oltre ad essere risultato il partito più votato al Congresso dei deputati, ha conquistato la maggioranza assoluta del Senato (con 123 seggi su 208) e vinto nella Comunità Autonoma Valenciana, dove contestualmente si è votato per rinnovare il parlamento regionale, si ha la misura del successo di Pedro Sánchez. Certo, i socialisti sono rimasti al di sotto dei 176 deputati necessari per l’investitura del presidente del governo. Ma dal ritorno della democrazia, la Spagna non ha mai avuto governi di coalizione e non è detto che questa volta ci si discosti dalla consuetudine.
Un elemento importante è l’affluenza alle urne, con il 75,75% dei partecipanti (circa nove punti in più rispetto alle precedenti legislative), si è dato un segnale in controtendenza rispetto alla generale disaffezione per la politica. La democrazia non s’esaurisce con il voto, ma l’alta affluenza resta comunque una festa per la democrazia. Per quanto riguarda la formazione del nuovo governo? Fino alle elezioni europee del 26 maggio, che in Spagna coincideranno con le comunali e con il voto per rinnovare i parlamenti di 12 Comunità autonome, è difficile che Sánchez scopra le proprie carte. Occorrerà dunque attendere. Il sospetto è che punti alla riedizione di un governo di minoranza contando, per l’investitura, sul voto favorevole di Podemos, del Pnv (partito basco) e sull’astensione di almeno uno dei due partiti indipendentisti catalani. Ma si tratta di un obbiettivo tutt’altro che facile da centrare. Per la sinistra qualche segnale c’è, basta volerlo cogliere.