Siamo nell’odierna New Orleans, nel cuore di una comunità afroamericana in sofferenza e turbata dall’acuirsi di una violenza razziale sempre più istituzionale. Minervini, fin dalle prime sequenze, descrive un mosaico esistenziale borderline: quella di Judy, una donna, provata dagli errori del passato e che cerca di ricostruirsi una vita; quella di Ronaldo e Titus, giovani fratelli che fanno i conti con un contesto di violenza; quella della rinnovata lotta politica condotta dalle moderne Black Panthers; infine, quella di Kevin, grande capo e custode delle tradizioni indigene locali che vuole preservare l’animo plurimillenario di una collettività in crisi.
Emerge nel film la cifra stilistica dell’autore, un pedinamento incessante dei personaggi della narrazione, seguiti senza tentennamenti, evidentemente grazie ad un intenso legame di fiducia instaurato con i protagonisti. La scelta di inquadrature ravvicinate, capaci di connotare uno spazio intimo e realista, l’uso di un misurato montaggio parallelo, in equilibrio tra le diverse linee narrative, e la costruzione di un dirompente bianco e nero, che esalta in pieno l’idea di contrasto sociale all’origine del film, risultano funzionali a catapultare lo spettatore nel crudo perimetro di queste esistenze, per farlo entrare in empatia con una dimensione emozionale ed affettiva.
È un cinema di margine e di confine, ma è anche e soprattutto un cinema di prossimità e di vicinanza che non può non portare a condividere una lotta per la dignità. Qua stanno la chiave e la forza dell’opera e del suo riuscire a muoversi sui diversi piani della finzione e della realtà, in uno spazio artistico sperimentale e incredibilmente interessante oltre ogni steccato.