Daniele Gaglianone: nella guerra dei poveri, il nemico è altrove

Dove bisogna stare, il film documentario di Daniele Gaglianone, aprirà le serate culturali di Ucca al Festival Sabir a Lecce dal 16 al 19 maggio. Proiezione il 16 maggio alle 20.30 all’Aula Magna dell’Ateneo – Palazzo Codacci  Pisanelli, alla presenza del regista. La proiezione è gratuita, così come quelle delle serate successive.

Ecco l’intervista al regista realizzata da Francesco Di Brigida per Fabrique du cinema.

Il testo integrale sul sito:

www.fabriqueducinema.com/cinema/interviste/daniele-gaglianone-nella-guerra-dei-poveri-il-nemico-e-altrove/

Solitamente siamo abituati a sentire storie di migranti, ma mai quelle dei volontari che si sacrificano per donare tempo e lavoro all’accoglienza mantenendo intatto il sogno dell’integrazione. Le quattro donne protagoniste del film sono volontarie che, ognuna a modo suo, si battono ogni giorno per dare una mano a qualcuno di quei 10.000 sbarcati che restano fuori dagli aiuti stanziati dallo stato.

Il film nasce da una collaborazione con Medici Senza Frontiere e dalla ricerca su quelle che hanno chiamato ‘situazioni fuori campo’. Un’iniziativa che monitorava le situazioni fuori dall’accoglienza istituzionale perseguite da persone in modo spontaneo. Nelle parole di Gaglianone si percepisce sempre il concetto di comunità, a partire dal plurale che utilizza sempre per parlare delle scelte del film. Tra le pieghe della società esistono persone di buona volontà che rompono gli schemi, che offrono conforto ai più bisognosi anche tradendo assurde etichette legate alle classi sociali coercitive, ma esistono anche registi impegnati a portare un messaggio d’intervento positivo e di convivenza multiculturale.

 

Come sono state messe insieme queste storie?

Le protagoniste sono state suggerite da Medici Senza Frontiere, tranne Elena, che invece ho trovato io successivamente perché ci sembrava giusto chiudere l’arco alpino della frontiera italiana con la Val di Susa, dove migranti respinti a Ventimiglia hanno cercato lo scorso inverno di attraversare il Colle della Scala per andare in Francia. Senza sapere che andavano incontro a pericoli che credevano meno gravi delle traversate nel deserto, dei lager libici o dei viaggi in mare. Però, nonostante il breve tragitto, quel passaggio voleva dire morire. Elena opera in Val di Susa e, senza questa rete spontanea di persone che si rendono utili, l’inverno avrebbe portato una mattanza.

 

Più che un documentario il tuo è un film verità. Un lavoro esperienziale su alcune donne fuori dal coro. Come hai diviso visivamente questa narrazione a quattro voci?

Noi abbiamo cercato anzitutto, come credo si debba sempre fare, di sparire. Per poi far riemergere lo sguardo sulla vita di queste donne. Abbiamo lavorato sul restituire il quotidiano di Lorena, Georgia, Jessica e Elena filtrandole con la nostra sensibilità. Allo stesso tempo abbiamo affiancato uno spazio mentale tutto loro dove riflettere e raccontarsi per capire delle cose, entrare in crisi. L’intento era quello di dare l’idea che questi quattro ritratti stessero delineando quasi una persona unica, ma ancor di più un’abitudine, un’attitudine con le sue sfaccettature. Queste donne hanno parecchie similitudini, ma anche punti di distanza tra loro, per questo credo risultino complementari.

 

Un termine piuttosto negativo viene spesso usato oggi: ‘guerra dei poveri’ o ‘tra poveri’. Qui invece ci sono donne che occupano edifici per ospitare persone, donne che aiutano uomini, persone che cercano di ricostruire la propria identità, persone in fuga. E dall’altra parte donne che rischiano le amicizie per il loro altruismo malvisto. Questo scenario, a volte sotterraneo, mai messo in luce, sembra sia diventato uno ‘spionaggio dei poveri’.

Certo, c’è uno ‘spionaggio tra i poveri’. Per fortuna i destini delle nostre protagoniste hanno lati positivi. Lorena ha perso tutte le amicizie, sì, Georgia una parte, ma Elena, anche grazie ai suoi amici è riuscita a sopportare il peso della scelta di accogliere in casa un migrante ridotto in pessime condizioni di salute. Jessica invece fa parte di un collettivo con un’idea forte di socialità. Una volta sarebbe stato impossibile, ma ora, con l’aria che tira, potrebbero essere perseguite semmai venisse istituito un reato di solidarietà. È un ragionamento tra le righe, ma pensiamo per esempio alla recente campagna contro le Ong iniziata con il ministro di un sedicente partito di centrosinistra, non di destra estrema. È già in corso un attacco di costume, culturale, contro quelli che sembra non abbiano nient’altro da fare che occuparsi degli altri. Ma occuparsi degli altri significa occuparsi di se stessi. Il titolo del film infatti vuol dire “Dove bisogna stare per l’altro”, ma anche “Dove ho bisogno di stare io”. Non potrei vivere in un mondo così, senza aver provato a cambiarlo. E la condizione del migrante è la mia condizione. Perciò, sulla ‘guerra tra i poveri’, il nemico è altrove.

 

Se aggiungo un punto interrogativo al titolo del tuo film, diventa una domanda. Perciò ti chiedo, dove bisogna stare?

Bisogna stare dentro il reale. Che non è la realtà. Quella è condivisa, spacciata dai media di comunicazione e narrazione mainstream. Anzi, usiamo pure questa parola, questa realtà è diffusa dalla voce del regime. Non identifico il regime con categorie al potere, ma con modalità di relazione con le cose e le persone. In questa modalità ci si allontana sempre più dal reale, invece persone come Lorena, Elena, Georgia e Jessica lavorano in silenzio, hanno deciso di mettersi in gioco, e ce ne sono tantissime altre. Loro si mettono in discussione non solo personalmente, ma come rappresentanti di un mondo agli occhi dell’altro.