24 anni dopo il genocidio di Srebrenica
Srebrenica, 2019 – Sono “arrivati” in 33. Così si dice da queste parti. Questo è il numero delle persone ritrovate quest’anno e riconosciute dal Centro di Identificazione (ICMP-PIP) di Tuzla che l’11 luglio verranno sepolte al Centro Memoriale di Potočari, Srebrenica.
Qui si sta discutendo molto sul rischio di “iconografizzare” Srebrenica, specialmente in vista del venticinquennale del prossimo anno. Iconografizzarla a livello di significato complessivo della guerra in Bosnia-Erzegovina e rendere Srebrenica fagocitante del processo che invece sarebbe da analizzare: la “lezione bosniaca” di cui parlava Alexander Langer.
Eppure di letteratura in merito, riferita ad altri abissi toccati dall’umanità, ce n’è. Riprendendo Primo Levi, alla fine della catena c’è Srebrenica. O Bauman, Srebrenica è il massimo prodotto della società di quel tempo. Si, ma come ci si è arrivati?
Lo Slow motion genocide in Bosnia-Erzegovina è stato congegnato prima della sua effettiva messa in atto, che comincia ad aprile del 1992 e culmina con Srebrenica a luglio del 1995. La preoccupazione è che la “comunità internazionale” sia disposta in qualche modo ad inghiottire il rospo Srebrenica sub condicione che questo esaurisca la riflessione e l’analisi sul “genocidio al rallentatore”, sui processi che lo hanno reso possibile e sulle responsabilità reali connesse. E le immagini che arrivavano dalla ex-Jugoslavia erano “a colori”, vicinissime e leggibili.
Ritorno sulla dimensione concreta di queste giornate. Omer è “passato”. Questo è il termine che si usa a Srebrenica per riferirsi a chi è sopravvissuto alla Marcia della morte del luglio del 1995. Mi ha portato a Šušnjari, Jaglići e Buljim, luoghi dove la colonna, che provava a scappare attraverso i boschi per raggiungere i “territori liberi” dopo la caduta di Srebrenica, si è formata ed è stata attaccata con l’artiglieria serbo-bosniaca.
Sono i luoghi della storia, quelli dove si sviluppa la dinamica di quello che poi verrà giudicato come il genocidio di Srebrenica. Era una trappola infernale. Mi fa capire da dove sono arrivati loro, dove erano le trincee serbo-bosniache, da dove bombardavano, dove avevano piazzato le mine, come avevano avvelenato le fonti d’acqua. É chiaro. Non doveva uscirne vivo nessuno. É stata una “caccia all’uomo”. «Io sono un morto che cammina», mi dice. «Ho perso mio padre, mio fratello, mio zio e tre cugini, nella Marcia della morte. Loro non sono passati. Mi fa scoppiare l’anima il senso di colpa per avercela fatta. Forse se tornavo indietro, almeno mio padre sarei riuscito a salvarlo».
E poi arriva un regalo. Da Dragan Bursać, ex soldato dell’Esercito serbo-bosniaco, arguta voce critica interna al suo gruppo nazionale. Lo abbiamo letto insieme ai ragazzi/e di Adopt Srebrenica dopo aver condiviso i racconti della storia di Omer. Ci ha toccato molto e abbiamo voluto tradurlo. É un pezzo importante, che arriva come una mano tesa in queste giornate piuttosto complicate per chi vive qui. Un pezzo di speranza rispetto alla possibilità di trovare qualcuno “degli altri” con cui dialogare sulla guerra e sul genocidio. Uno di quelli che qualche domanda – importante – prima di pensare di aver capito, se l’è fatta.
«Se leggi attentamente e con voglia di capirli i nomi e i cognomi che si celano sotto questo numero, ci vorranno almeno quattro ore. Quattro ore solo come “ouverture”, sotto la quale stanno più di 8.000 storie di persone, di amori, litigi, compleanni, gioie e dolori…
Se leggi attentamente, vedrai che non sono numeri, ma persone. Persone che sono state ammazzate perché portavano un nome diverso e perché pregavano un Dio diverso. No, 8.372 non è un numero.
É la password per il dolore, è la ferita aperta della mia terra e uno sfregio sul volto dell’umanità. 8.372 è la chiave di una casa di famiglia di una città sotterranea fatta di ossa umane e proiettili bestiali. Se non capisci i nomi, tu conta. E che il numero diventi per te una persona, almeno una volta. E andrai in crash dopo alcune migliaia e il cervello ti abbandonerà…
E questo non è un numero. 8.372 è la password per il dolore, e il nome e il cognome del genocidio!» (Dragan Bursać)