Regia di Nazareno Manuel Nicoletti. Recensione in anteprima
«Hauntology» è il termine che mi è venuto alla mente vedendo l’opera seconda di Nicoletti. Non nel senso coniato da Derrida,
ma nell’accezione accolta dal mai abbastanza rimpianto Mark Fisher: la nostalgia di un futuro appena fuori dalla nostra portata e l’impossibilità del presente.
Una giovane donna spaesata. Un uomo che se ne vuole andare. Un pugile mascherato che si allena nei 25 metri quadri della sua stanza e osserva gli altri in televisione, mangiando patatine, come in un circuito chiuso spazio-temporale senza via d’uscita.
È un film infestato da fantasmi, che camminano come automi, gli occhi bassi, biascicano frasi spesso indecifrabili, vivono esistenze incomprensibili anche a se stessi. Spettri braccati da un passato di instabilità psichica, che si trascinano in spazi claustrofobici e sembrano dire: attenzione, c’è un deserto là fuori.
Ombre che diventano ectoplasmi nelle elegiache e delicate immagini sgranate di una cerimonia, la comunione di una bambina: la dolce seduzione della nostalgia, l’impazienza di accedere al passato o l’impossibilità di uscirne?
Onirico e allucinato, oscuro e impenetrabile, Giù dal vivo è l’opera di un giovane talento visionario. Non è un film sulle periferie o sul disagio mentale. Non è neppure un documentario. Parla del tempo, del presente spezzato. Della desolazione della condizione umana. Parla di noi.