È tutto incentrato sulla tormentata e autobiografica storia d’amore tra due ragazzi Igor, ultimo album del rapper afroamericano Tyler The Creator, che nell’estate appena trascorsa ha sbancato le classifiche di mezzo mondo.
Il coming out di Tyler Gregory Okonma, questo il suo nome completo, risale all’estate del 2017, quando in alcune canzoni appena pubblicate il rapper aveva fatto trapelare la proria omosessualità: «sì, ho avuto il mio primo ragazzo all’età di 15 anni» ammise candidamente ai giornalisti.
Nulla di strano, in teoria; non fosse che, nel 2015, a Okonma era stato vietato l’ingresso in Inghilterra per 5 anni, a causa di testi ritenuti scandalosamente omofobi: nel suo secondo album (Goblin del 2011), in effetti, la parola faggot – equivalente inglese dell’italiano ‘frocio’ – ricorreva ben 213 volte in appena 70 minuti.
Quello di Tyler non è affatto un caso isolato. Nella scena hip hop statunitense – ove il linguaggio scurrile e i cliché sessisti continuano spesso a rappresentare quasi una cifra stilistica – l’omosessualità sta smettendo, un giorno dopo l’altro, di essere tabù: «il genere sessuale, per me, è un concetto che semplicemente non esiste» ha dichiarato di recente Young Thug, rapper dalla marcata estetica queer e in odore di bisessualità, amatissimo dai giovani, che pure con le parole continua a non andarci affatto leggero.
Che avesse ragione Lenny Bruce, padre della stand up comedy, che già negli anni 60 sosteneva che fosse «la repressione di una parola a darle forza, violenza malvagità»?
«Se il presidente Kennedy – soleva dire Bruce – apparisse in televisione e dicesse: ‘Vorrei farvi conoscere tutti quanti i negri del mio gabinetto’; e se continuasse a dire negro, negro, negro a tutti i neri che vede, finché negro non significa niente, mai più; allora non vedreste più piangere un bambino di colore di sei anni perché qualcuno a scuola l’ha chiamato negro».