Ho scritto un romanzo su Rozzano, il paese in cui sono cresciuto, e sull’HIV, l’infezione che ho contratto, non so dove, non so quando. Esistevano già svariati romanzi sull’HIV, non esisteva nessun romanzo su Rozzano, eppure ci si riferisce al mio libro (Febbre, 2019, Fandango Libri) come a un romanzo sulla sieropositività.
Perché? Probabilmente il motivo ha a che fare col fatto che di HIV non si parla quasi più. La cappa di pudore/vergogna ha fatto sì che l’immaginario collettivo restasse quello dei decenni – tragici – dell’inizio dell’epidemia. Oggi le persone sieropositive sopravvivono, e bene, l’aspettativa di vita è sovrapponibile a quella dei sieronegativi, chi è in terapia non è più contagioso, eppure la sensibilità media è congelata agli anni ’80 e ’90.
Ho voluto impadronirmi della mia diagnosi, assumerla su di me pubblicamente, per ricoprirla di significati nuovi, rendendola ad esempio un dispositivo narrativo in grado di raccontare anche la storia di una famiglia e di un luogo. Non è affatto detto che se ne debba parlare solo nei termini delle campagne di prevenzione o dei servizi sugli untori: la mia scommessa è quella di poter dire di essere sieropositivo senza per questo finire appiattito su quell’archivio di luoghi comuni coi quali ancora oggi, strenuamente, si tenta di relegare il male nel remoto ripostiglio delle cose sbagliate.