La nostra piccola società nazionale sembra impazzita. Strade deserte, poche macchine in circolazione, mascherine bianche, zone rosse, auto-reclusione. E in mezzo a tutto questo, sospetto e spesso paura, se non addirittura panico. Questo oggi non è un ritratto improbabile del nostro paese, ma una fotografia abbastanza comune passando dal Veneto alla Sicilia. Stiamo qui provando maldestramente a descrivere l’Italia ai tempi del Coronavirus.
Eppure tutto questo sembra già essere successo, certi lampi di paura individuale o di panico generalizzato sembrano un déjà-vu, certe immagini sembrano ritornare da zone rimosse del nostro immaginario.
Lo stesso Jacques Derrida, parlando dell’11 settembre 2001 e dell’attacco alle Torri Gemelle, ricordo avesse sottolineato, in alcuni interventi, che quelle immagini di morte e distruzione noi occidentali le avevamo già dentro di noi. Paura (conscia) e desiderio (inconscio) davanti a quel disastro, fino a quel momento impensabile, se non inenarrabile.
Ma certo, i disastri nucleari, gli zombi, le epidemie, le catastrofi naturali non possiamo dire di non averli già conosciuti e interiorizzati, forse (molto lontanamente) desiderati. E tutto questo è successo perché cinema, musica, letteratura, tv hanno foraggiato quotidianamente il nostro immaginario collettivo, nei suoi meandri più profondi, fatti di stratificate immagini in movimento.
Oggi questo rimosso è reale e proviamo ad affrontarlo, forse con qualche strumento in più rispetto al passato. L’incredibile paradosso consiste però nel fatto che tali conoscenze di ritorno le utilizziamo politicamente per chiudere gli spazi sociali che le hanno rese possibili.
Oggi l’Italia è quasi tutta chiusa al pubblico, ma le sale cinematografiche e teatrali sono state l’oggetto iniziale di questo percorso di chiusura: subito dopo le scuole, cinema e teatri sono stati il primo spazio sociale da sbarrare alla presenza del pubblico da parte del legislatore. Si tratta, a pensarci bene, quasi di una censura inconscia, per giocare con facili termini freudiani.
Eppure, come ha ricordato in una sua intervista alla fine degli anni Novanta la drammaturga inglese Sarah Kane, una che se ne intendeva non poco di distopie violente, se scoppiasse una bomba e distruggesse tutto i sopravvissuti proverebbero immediatamente a trovare cibo e riparo, ma poi avrebbero la necessità di raccontarsi delle storie.
È per questo motivo che, alla luce del decreto del governo del 4 marzo 2020, Arci Movie, un circolo che fa attività di promozione sociale e culturale attraverso il cinema da trent’anni a Ponticelli, periferia orientale di Napoli, ha deciso di non chiudere il suo storico Cineforum, ma di continuare le sue proiezioni, anche con la messa in campo di distanze di sicurezza per gli spettatori. E i soci hanno partecipato in gran numero.
Il giorno dopo, poi, è arrivata la chiusura forzata su tutto il territorio nazionale.
Tuttavia, l’ultimo film proiettato a Napoli da Arci Movie è stato una rivelazione rispetto a quello che ci sta succedendo. Ancora una volta la luce dello schermo ha illuminato il nostro presente.
La vita invisibile di Eurìdice Gusmão è un film apparentemente banale: due sorelle che vivono una spensierata giovinezza nella Rio de Janeiro degli anni ’50: la famiglia, le passioni, le complicità. Poi il colpo di scena che cambia il corso della storia: Guida, coperta dalla sorella Eurìdice, passa una serata con un marinaio greco, con il quale scappa in Europa per sposarsi.
Guida ed Eurìdice, nonostante il forte legame, non si incontreranno più. Ma si rincorreranno per tutta la vita, attraverso incontri mancati e lettere censurate, fino a un magico e commovente colpo di scena finale.
Ed è questo loro rincorrersi che interessa il nostro discorso sul cinema in Italia al tempo del Coronavirus, la necessaria e ineludibile presenza di corpi pulsanti vita che non sopportano la distanza, il non potersi più toccare, il non vedersi, non avere più la possibilità di riconoscersi fisicamente.
La vita invisibile di Eurìdice Gusmão ci ricorda l’importanza di una socialità autentica attraverso la presenza, gli sguardi, gli odori, lo sfiorarsi. Tutto quello che una sala piena di spettatori garantisce sempre, e a cui la nostra società non può (a lungo) rinunciare.