Donald Trump è stato molto chiaro, nella sua dichiarazione su Gerusalemme capitale di Israele. Per l’ennesima volta ha messo da parte la comunità internazionale, le convenzioni firmate anche dagli Usa, le risoluzioni dell’Onu, il diritto internazionale. Ha indicato il suo metodo: definire, in quanto presidente, il ruolo degli Stati Uniti nel mondo fuori dagli organismi unilaterali. È solo partendo dall’assunto bilateralista che si possono comprendere le reazioni politiche palestinesi. Se cambiano le regole del gioco mentre la partita è in corso, non ci sono più regole. Venticinque anni di gradualismo e multilateralismo, venticinque anni di processo di Oslo, sono stati sepolti definitivamente. Niente di nuovo. Quello che, forse, non ci aspettavamo è la velocità con la quale il linguaggio sarebbe cambiato.
Ci dobbiamo, cioè, abituare a non ascoltare il mantra secondo cui il conflitto si risolve con due stati uno accanto all’altro che vivono in sicurezza con Gerusalemme capitale di Israele e Palestina. A sdoganare definitivamente i nuovi paradigmi è stato proprio Donald Trump ripetendo nel suo discorso che Gerusalemme è capitale di Israele. E indicando chiaramente che per lui non esistono due soggetti su di un piede di parità, e cioè Israele e Palestina, due Stati. Esistono Israele, da un lato, e i palestinesi, dall’altro. Uno Stato e un popolo. Accettare il nuovo status di Gerusalemme fuori dal diritto internazionale significa accettare che anche gli altri – i palestinesi – cambino il paradigma. «Non c’è più soluzione dei due Stati, lavoriamo per lo Stato binazionale dal mare al fiume Giordano», ha detto il negoziatore di Oslo più moderato, Saeb Erekat.
Vale anche per Gerusalemme. Se Gerusalemme è una per gli israeliani, è una per i palestinesi. Lo è nel sentimento popolare di entrambe le comunità. Gerusalemme è il simbolo nazionale, il riferimento religioso e il mito. Gerusalemme è una. La Palestina è una. E per gli israeliani Gerusalemme è una e Israele è una. Sulla stessa terra, dal mare al fiume Giordano, come due fogli che si sovrappongono. La visione di Meron Rapoport One Homeland/Two States, è già pronta. E sarebbe, secondo me, l’unica visione che mette sul piede di parità tutti i protagonisti.
Ora sembra che tutto sia stato distrutto. Il negoziato di Oslo, uno status quo permanente che limita le perdite, un conflitto a bassa intensità. E le parole di Haniyeh, dirigente di Hamas, non sono per nulla rassicuranti: quella di Trump è stata una dichiarazione di guerra, e la reazione è l’intifada che deve riunire tutte le parti politiche palestinesi. Viene anche da chiedersi il perché della tempistica di Trump. Perché proprio il 6 dicembre? L’8 dicembre si celebrano i 30 anni dalla prima intifada, scoppiata a Gaza. La fondazione del movimento Hamas si fa cadere proprio in quel giorno. Si voleva scatenare la reazione di Hamas per poter scatenare una guerra su Gaza? Quando si aprono i vasi di Pandora, però, bisogna stare attenti. Non sempre succede ciò che si prepara a tavolino. E in ogni caso, anche se tutto riuscisse, quanti morti dovrà piangere il Medio Oriente? E per quale ragione?