Redeyef, città del profondo sud della Tunisia, nel cuore del bacino delle miniere di fosfati da dove sono cominciate le grandi rivolte che hanno cambiato il volto del paese. Da qui sono partiti anche una parte dei tunisini che, negli ultimi mesi, hanno raggiunto le nostre coste. Qui sono tornati molti di loro, espulsi dal nostro paese. Nel 2017 sono poco più di 6000 i tunisini sbarcati in Italia, con un aumento del 200% rispetto al 2016. Poco meno di 200 i migranti intercettati dalla marina tunisina e riportati a terra prima di uscire dalle acque territoriali. 2193 sono stati espulsi nello stesso anno dall’Italia sulla base di accordi negoziati dal 1998, rinnovati l’ultima volta il 5 aprile 2011 dal Governo Berlusconi, prevedendo quote di espulsioni. Se tra gennaio e settembre in media l’Italia ha effettuato un volo a settimana, negli ultimi mesi dell’anno il ritmo si è intensificato con due voli a settimana – il lunedì e giovedì – con 40 migranti a bordo. Chi non rientrava in questa quota, in modo completamente arbitrario, è stato rilasciato sul territorio con una notifica di respingimento differito.
Sono una trentina i ragazzi che incontriamo nella sede della nostra associazione partner, FTDES, a Redeyef. Le voci si sovrappongono ma i racconti si assomigliano. Dopo una decina di ore di viaggio, Lampedusa appare all’orizzonte. Per quelli arrivati nel 2017 la procedura é simile: detenuti per settimane nell’hotspot sull’isola, venivano poi rimpatriati, passando per l’aeroporto di Palermo, e lì sommariamente identificati da un console. Nelle ultime settimane, dopo le varie denunce sull’hotspot di Lampedusa, la permanenza sull’isola sembra ridursi con conseguenti trasferimenti negli hotspot di Pozzallo e Trapani o nel CPR di Caltanissetta. Numerose le violazioni dei diritti di cui sono stati vittime durante la loro permanenza in Italia: detenzione illegale senza convalida del giudice all’interno di una struttura – l’hotspot – che manca di base giuridica nella legislazione italiana; spesso vittime di trattamenti degradanti.
I racconti si fanno più tragici per chi, arrivato in Sicilia, è stato detenuto nel CPR di Caltanissetta. I pestaggi in questo centro di detenzione sembrano essere all’ordine del giorno. A nessuno dei numerosi ragazzi incontrati è stato permesso di fare richiesta d’asilo in una logica assurda per cui in Italia considera i tunisini provenienti da un paese sicuro, in contrasto con la convenzione di Ginevra per cui lo studio di ogni caso deve essere fatto sulla base della propria storia personale e non su quella del paese di origine. Anche sull’arrivo i racconti coincidono: detenuti per una decina di ore, si vedono sottrarre tutto ciò che di prezioso possono ancora avere. Spesso picchiati e insultati, vengono poi rilasciati, senza neanche un centesimo in tasca.
Durante il racconto, nei loro occhi traspare l’umiliazione subita. La vergogna di tornare a mani vuote dopo aver speso tutti i soldi che la famiglia aveva a disposizione nel tentativo di riuscire a restare in Europa. Una cosa è chiara: in Tunisia non vogliono restare. Molti sono al secondo, terzo viaggio. Quando si ritorna si ripensa solo a come recuperare i 4000/5000 dinari necessari per ripartire, mentre la loro vita continua nel limbo tra i due viaggi, nella polverosa Redeyef.