Sono passati 26 anni da quel 23 maggio del 1992.
Alle 17.58, nel tratto di autostrada che dall’aeroporto di Punta Raisi conduce a Palermo nei pressi dello svincolo di Capaci, una grande quantità di esplosivo fa saltare in aria un corteo di auto blindate.
L’esplosione è talmente forte da essere registrata dai sismografi dell’Osservatorio geofisico di Monte Cammarata, in provincia di Agrigento, e provoca un cratere profondo quasi quattro metri.
L’attentato uccide il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, gli agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani.
La strage, insieme a quella che di lì a poco, solo 57 giorni dopo, viene commessa in via D’Amelio a Palermo uccidendo il giudice Paolo Borsellino e i 5 agenti di scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Cosina e Claudio Traina, sarà l’attacco più forte che Cosa Nostra abbia mai compiuto nei confronti dello Stato.
Da allora il Paese ha iniziato ad avere la consapevolezza della forza e della pericolosità della mafia.
Ricordare quella strage, cosi come le altre che le succederanno a breve con i suoi tanti morti, non è solo un dovere di memoria nei confronti di chi è caduto in difesa delle istituzioni democratiche.
È anche, e forse ancor di più, la richiesta di verità e giustizia su quanto avvenne in quegli anni.
Ancora, dopo 26 anni, troppi intrecci non svelati, troppe zone buie e, malgrado l’ultima sentenza dello scorso 20 aprile ci dice che vi fu una trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra, non sono ancora chiari i responsabili politici di tale trattativa, quali ricatti e quali segreti indicibili nascondeva.
Allora, commemorare non è solo un rito civile di rispetto della memoria dei morti ma anche e soprattutto un dovere civico a difesa della democrazia, del suo passato e ancor più del suo futuro.
Nessuno oblio è possibile fino a quando tutta la verità non sarà svelata.