Prima sono arrivati, sui social, i post di dileggio, poi, a inchiesta andata in onda, si sono scatenati con le accuse: siete di parte, volete danneggiare la più forte squadra italiana, raccogliete voci inconsistenti (che in parte erano le stesse prese sul serio dalla procura di Torino), per esplodere negli insulti, nelle minacce dirette, nelle ripetute aggressioni verbali in locali dove Federico Ruffo pensava di poter mangiare in santa pace. A Torino ma anche a Roma. Fino alla benzina gettata per tutta la palazzina, alla sua porta di casa e alle croci dipinte sui muri. A Ostia, ennesima azione ai danni di cronisti nel giro di un anno.
Questa è la sequenza completa degli attacchi subìti da Federico Ruffo per l’inchiesta di Report sui presunti legami tra gruppi ultras, ‘ndrangheta e Juventus: è essenziale capire che c’è un filo rosso che unisce tutto, il che non significa che gli autori di insulti e minacce sui social o per email siano tutti responsabili del fallito attentato.
Se c’è un nesso, e con chi e fino a che punto, è materia di carabinieri e Procura di Roma, che ha aperto un fascicolo. A noi però sta denunciare una inquietante, pericolosissima attitudine a dar la caccia al cronista che riporta notizie, racconta storie oscurate, ricostruisce passaggi, legami, interessi che non è bene ricostruire, almeno in pubblico. E non aiuta puntare l’obiettivo su gruppi ultras violenti. La deriva è diffusa, ha oltrepassato i margini di territori e ambienti a forte spessore criminale. Lo sanno quei colleghi che ‘fanno domande’: spintoni anche violenti dai bodyguard di turno, domande impedite in conferenza stampa, avvertimenti anche da esponenti di istituzioni, persino della cosiddetta ‘accademia’, che arrivano anche a telecamere accese («si ricordi che anche lei ha una famiglia»), per far capire come si deve comportare «un giornalista bravo».
Ora tutti partecipano alla gara di solidarietà per Federico e per Report. E questo non può che farci piacere, come giornalisti e come cittadini: la politica si rende conto che passare dalle parole ai fatti è un momento e nessuno che abbia un minimo senso di responsabilità può tacere. Ma serve altro: ci aspettiamo innanzitutto che il vicepremier Di Maio riconosca pubblicamente che le espressioni usate all’indirizzo dei cronisti («infimi sciacalli») sono impensabili in bocca a uno dei massimi rappresentanti delle nostre istituzioni; ci aspettiamo che il presidente del Consiglio Conte rettifichi il suo «può capitare che, come voi attaccate violentemente, veniate attaccati violentemente con qualche affermazione lessicale che possiamo giudicare eccessiva. Ci sta». Cosa significa? Lo spieghi anche da giurista: come dovranno interpretare quel «ci sta» i suoi studenti universitari, futuri giuristi, avvocati, magistrati, uomini delle istituzioni? E ci aspettiamo che il ministro dell’interno Salvini, che ha espresso solidarietà piena e incondizionata a Federico, faccia proprio il nostro invito rivolto alla polizia postale a indagare sui mandanti della campagna d’odio cominciata da tempo via web ai danni di tante croniste e cronisti bersagliati da insulti e minacce.
Non è un caso che, per la quinta volta in pochi mesi, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella sia intervenuto a difesa della libertà di stampa: «ha un grande valore, perché, anche leggendo cose che non si condividono, anche se si ritengono sbagliate, consente e aiuta a riflettere». Un richiamo che editori e giornalisti, per una volta tanto uniti, hanno rilanciato, con una pagina in cui viene riportato l’articolo 21 della Costituzione italiana. Un segnale che noi giornaliste e giornalisti non rinunceremo a fare il nostro dovere.