I persiani sono scesi in piazza, e non si tratta di felini che fuggono dai lussuosi appartamenti dei parioli, ma della grande e corposa rivolta di massa che ha agitato l’Iran a cavallo del passaggio d’anno. La storia ci insegna a non sottovalutare ciò che accade in quel Paese, non solo ripensando alla conseguenze interne che la Rivoluzione Khomeinista del 1979 ebbe, ma anche al ruolo geopolitico che l’Iran esercita sopra una vastissima area rispetto alla quale è certamente il paese di riferimento. Le manifestazioni sono iniziate il 28 dicembre a Mashad, città fortemente conservatrice e religiosa, e per questo motivo è stato sostenuto che le proteste siano state pianificate dagli esponenti politici ultra-conservatori, in opposizione al governo. Una strategia politica volta a delegittimare l’attuale presidente iraniano, accusato di perseguire delle politiche troppo moderate nei confronti dell’occidente e di stampo neoliberista in economia. Al grido di «No Gaza, No Libano, No Siria. La nostra vita per l’Iran», le strade si sono affollate di persone che protestavano contro la crisi economica e le spese militari sostenute nei conflitti regionali.
Il governo censura sistematicamente siti web e social network, disponendo, nel piano di sicurezza nazionale, controlli più pervasivi su attivisti e difensori dei diritti umani che sono stretti nella ragnatela della repressione. La società civile invoca da tempo una riforma della giustizia e provvedimenti per ridurre le diseguaglianze socio-economiche: da un lato il numero complessivo di esecuzioni capitali è in aumento dal 2015 (oltre 200 nel primo semestre del 2017), così come sono crescenti processi e condanne per falsi reati; dall’altro, l’effetto dei finanziamenti bellici agli alleati e il clientelismo della ayatollah economy accrescono disoccupazione giovanile (intorno al 40%) e malcontento popolare, alimentato dall’aumento dei prezzi di beni di prima necessità. Nel 2013, l’elezione dell’attuale presidente Hassan Rohani – esponente moderato, distintosi per un approccio più pragmatico e riformatore rispetto all’ultra-conservatorismo del suo predecessore Mahmud Ahmadinejad – fece prospettare maggiori aperture rispetto al tema dei diritti umani e civili. La ‘Carta dei diritti civili’, sollecitata da cittadini e Ong, è stata approvata nel dicembre 2016: un provvedimento importante che, tuttavia, resta confinato nel perimetro limitato delle leggi statali e della Costituzione, lontano dalle garanzie del Patto internazionale sui diritti civili e politici dell’Onu (1966).
Nei giorni seguenti la protesta si è allargata a tutto il paese, specialmente nella capitale Teheran, sfociando in una vera e propria guerriglia, che ha avuto come risultato oltre 20 morti e circa 450 persone arrestate. Le manifestazioni hanno avuto come filo conduttore il carattere sociale ed economico: i maggiori slogan che si sono uditi sono stati contro la disoccupazione e l’inflazione. La composizione delle manifestazioni era sostanzialmente costituita da classe operaia, disoccupati e le fasce più povere della popolazione iraniana – oltre ai giovani e agli studenti. A distanza di pochi anni, due grandi proteste hanno scosso l’Iran: la prima – l’Onda Verde, nel 2009 – rappresentata dalla classe media del paese, la seconda dalla fascia più umile del paese. È la dimostrazione della presenza di una società civile matura e dinamica e di un dibattito politico ampio e completo, che però rischia di rimanere intrappolato in un sistema politico ancora troppo chiuso dalla strette maglie della teocrazia, e che rende impossibile l’effettiva traduzione nel sistema del dinamismo della società civile del paese. Le politiche per i giovani in Iran saranno fondamentali per il futuro dell’intero sistema-paese: il vero dualismo presente nella Repubblica Islamica è infatti quello tra i giovani e le forze militari Pasdaran. Sono questi ultimi il vero motore politico ed economico del Paese, rappresentano l’ago della bilancia del sistema iraniano e non a caso sono loro che hanno annunciato la «sconfitta delle proteste». Due sono i possibili scenari a breve termine: il primo è quello caratterizzato da una totale repressione dei focolai di protesta; il secondo scenario è quello caratterizzato da un approccio maggiormente moderato, che sappia riformulare una politica economica di aiuto ai ceti meno abbienti, che metta insieme i processi di liberalizzazione economica in atto a un allargamento dei sussidi diretti alle fasce più umili della società.