«Je suis Jennifer. E poi Je suis Kofi…e Festus, Gideon, Mahmadou, Omar…»
Avrei voluto che questa scritta comparisse, virale, sui cartelli, le magliette, le prime pagine dei giornali, i portali sul web, i post su twitter e facebook, insieme al messaggio «Non abbiamo paura!», come a Parigi, o a Barcellona, o Londra e Bruxelles dopo ogni atto di terrorismo. Perché a Macerata di terrorismo si tratta, aggravato da abietti motivi di odio razziale e di fanatismo politico, con il tiro al bersaglio per uccidere su persone innocenti, identificate come target per il solo colore della pelle. Invece…
Invece niente, né ‘in alto’, né ‘in basso’. Nessuna ‘autorità’, si fa per dire – non un sindaco, un presidente di Regione, un consigliere comunale – ha espresso solidarietà e vicinanza alle vittime, nessuno al capezzale a stringere una mano nera, a porgere un abbraccio. A malapena se ne conoscono i nomi, dei colpiti. E pochi, pochissimi, sono scesi in piazza, per deprecare se non a Macerata, dove il presidio spontaneo immediatamente a ridosso dei fatti è stato ignorato del tutto dai media.
In compenso l’odio ha circolato abbondantemente sui social (e non solo). Un odio esibito, ostentato esattamente come la teatrale esibizione di Luca Traini sul palcoscenico del monumento ai caduti di Macerata, avvolto nella bandiera nazionale, il braccio teso nel saluto romano, a rivendicare orgogliosamente il fatto, a invitare a emularlo. Un odio senza pudore, che invoca ‘Luca Traini santo subito’, ‘Luca Presidente’. E che fa delle vittime dei colpevoli: colpevoli di ‘esistere’. Colpevoli di ‘essere qui’, come colpevoli sono tutti coloro che hanno loro ‘aperto le porte’. E intorno la ‘zona grigia’, che sempre accompagna, circonda e conferma i fautori dell’orrore: quelli del «Ha sbagliato ma…». Del «Non se ne può più»… Del «Forse sparargli è troppo, ma rimandarli a casa loro sì»…
E’ un segnale devastante quello che ci arriva dai sondaggisti che ci dicono che dopo la mattanza di Macerata è salito il consenso per la Lega di Salvini, il portavoce ufficiale dell’odio.
Macerata ha scoperchiato un abisso. Ci ha rivelato, di colpo, un Paese irriconoscibile. Logorato nel proprio senso civile, sfregiato nel proprio immaginario avvelenato. Imbarbarito nelle proprie passioni tristi. Svuotato di quei valori che si ritenevano fino a ieri acquisiti. Noi stessi ci ritroviamo d’improvviso timidi, imbarazzati e balbettanti nell’affermare princìpi che ritenevamo indiscutibili – la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, l’articolo 3 della Costituzione, il precetto evangelico del ‘non fare agli altri…’ – e che invece, guardandoci intorno, non ritroviamo più nello sguardo di chi ci circonda, fattosi vuoto, obliquo, spesso cattivo. Intossicato dalla propaganda degli ‘imprenditori della paura’, ma anche dal degrado sociale, dalla deprivazione di reddito e diritti, dal lavoro ai fianchi che la crisi ha operato su una base sociale già fragile.
Un ‘mondo di sotto’ nel quale nuota, come squalo nell’acqua, un neofascismo esibito senza più maschere o infingimenti, dichiarato e impunito.
Certo se Sergio Mattarella avesse avuto il coraggio di prendere e andare all’ospedale di Macerata a stringere le mani di Jennifer Mahmadou e Kofi, i tre più gravi ancora ricoverati, sarebbe tutto più facile. Avrebbe aperto un ombrello su quanti tentano, faticosamente, di ‘restare umani’ in un paese che si disumanizza. Lui – forte dal suo ruolo super partes, unico ‘rappresentante del popolo’ non coinvolto nel tritacarne della campagna elettorale – avrebbe potuto farlo. Non l’ha fatto e ci toccherà di fare da noi, come ormai troppo spesso accade, mobilitandoci perché del nostro Paese non resti solo quell’immagine, terribile e grottesca, di un fascista con la pistola in mano avvolto nel tricolore.