La Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (CEDU) ha ritenuto ammissibili i ricorsi di cinque cittadini sudanesi provenienti dal Darfur, che erano stati rimpatriati il 24 agosto 2016 dall’Italia al Sudan assieme ad altri 43 migranti.
Un’operazione decisa per dare un forte segnale di operatività del ‘memorandum d’intesa’ sottoscritto fra il Dipartimento di Pubblica Sicurezza del Viminale e la polizia del regime di Omar Al-Bashir, un accordo mai discusso né ratificato dal Parlamento italiano dove si prevede la collaborazione delle polizie dei rispettivi Paesi nella gestione delle migrazioni e delle frontiere. La CEDU ha ritenuto possibile la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea per i Diritti dell’Uomo (proibizione di trattamenti inumani e degradanti), dell’art. 4 del protocollo n.4 (proibizione di espulsioni collettive), dell’art. 13 (diritto al ricorso effettivo davanti ad un’autorità nazionale) e dell’art. 14 del Protocollo n. 4 (discriminazione).
Va innanzitutto segnalata la contestualità spazio-temporale e l’unicità dell’intento politico che ha condotto al rimpatrio forzato: un’unica operazione in un’unica città, con un’operazione programmata verso un gruppo di migranti definiti per nazionalità, come rilevano le dichiarazioni di rappresentati istituzionali relative al bando di gara per il volo utilizzato per il rimpatrio.
Raggiunti in Sudan da una delegazione di avvocati ed europarlamentari, i cinque cittadini hanno fornito precise testimonianze che hanno permesso di presentare i ricorsi alla CEDU per chiedere l’accertamento dell’illegittimità del comportamento del Governo italiano ai sensi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo ed il risarcimento dei danni provocati.
Evidente la violazione del principio di non refoulement previsto dall’art. 3 della CEDU e dall’art. 19 del Dlgs 286/1998: il rimpatrio è avvenuto verso un paese che sottopone sistematicamente i propri cittadini a trattamenti inumani e degradanti, soprattutto se provenienti dal Darfur. Innumerevoli rapporti di organizzazioni umanitarie sono a disposizione del Governo che non poteva non averne consapevolezza. Violato anche il divieto di espulsioni collettive, definito dall’art. 4 del quarto protocollo alla Convenzione data la dinamica dei fatti che ha visto il rintraccio e la successiva espulsione di un gruppo di cittadini della medesima nazionalità, un’azione a carattere discriminatorio basata su specifici accordi con lo Stato di origine dei migranti, come successivamente rivendicato pubblicamente dal Ministro dell’interno italiano.
Non vi è stata alcuna possibilità da parte dei migranti di poter agire contro l’espulsione: da un lato le rapidissime procedure adottate hanno compromesso il diritto all’informazione sul diritto d’asilo e il diritto a un esame individuale delle domande, violando anche gli obblighi derivanti dalla Direttiva europea 32/2013/UE. Dall’altro non è stato consegnato alcun atto impugnabile dai parte dei cittadini sudanesi per contrastare il successivo rimpatrio davanti ad un giudice nazionale. Azione che sarebbe stata comunque resa ardua dalla celerità degli eventi.
Ora il Governo italiano deve rispondere alle domande poste dalla Corte Europea per i Diritti Umani, con osservazioni scritte, entro il 30 marzo 2018.
Va sottolineata l’importanza dell’azione concertata tra avvocati, parlamentari, esponenti della società civile, che ha portato a questi risultati: dopo quei fatti non vi sono state più operazioni di rimpatrio collettivo ai danni dei cittadini sudanesi dall’Italia.