ARCI in prima linea a Gjader: difendere i diritti umani contro la disumanità delle politiche migratorie

A Gjader il mondo si è fermato prima degli anni ’50 del ‘900. Appena arrivati davanti alle cancellate del “centro di accoglienza” che il governo Meloni ha voluto a tutti i costi – anche al costo di fare una figura barbina – un gruppo di donne e bambine, fazzoletti sulla testa, trascina con l’aiuto di una carriola bidoni e bottiglie di acqua prese alla fonte. L’acqua non c’è ancora, nelle case di questa sperduta campagna albanese.

Di fianco al cancello attraverso il quale si accede nel recinto alto sette metri di ferro zincato, un cartello avverte con poco senso della grammatica che nel cantiere si entra solo con il caschetto, le scarpe antinfortunistiche, e che “è rigorosamente vietato l’ingresso a tutte le persone estranee ai lavori”.

Dunque per recitare la sua farsa, il governo ha rinchiuso persone in un cantiere, in cui peraltro stazionano anche poliziotti, carabinieri, agenti della finanza e della polizia penitenziari, oltre ai dipendenti della assai chiacchierata cooperativa Medihospes (qui un approfondimento di Altraeconomia) che gestisce il centro.

E in effetti, varcato il cancello è davvero in un cantiere che si entra. Entriamo grazie alla presenza di Francesca Ghirra, deputata di Avs e di Rachele Scarpa, deputata Pd. Con loro, una delegazione del Tavolo Asilo e Immigrazione formata da due mediatori culturali. L’80% delle strutture previste sono da finire o non sono ancora nemmeno costruite. Le ruspe scavano, le betoniere scaricano cemento, i pali del recinto del centro dove il governo ha rinchiuso i migranti sono solo infilati in buchi nel cemento e tenuto dritto da dei cunei di legno.

I primi “ospiti” – così vengono chiamati i reclusi – che incontriamo sono un bengalese e un egiziano. Il primo è scappato dal Bangladesh per questioni politiche, minacciato di morte. Un anno di viaggio, anche attraverso i lager libici dove veniva usato come schiavo, picchiato in diretta telefonica con la famiglia che ha venduto casa e terreni in cui vivevano per pagare il riscatto che gli ha permesso di salire su una barca e tentare la traversata. «In Libia i mafiosi mi hanno rapito», racconta. «Ci tenevano al buio e con le mani legate. Non ci davano da mangiare. L’acqua era pochissima. E poi ci picchiavano continuamente. Con ogni scusa».

Il ragazzo egiziano si è rifiutato di fare il militare, ed è dovuto scappare perché i disertori possono essere anche condannati a morte. Anche lui è passato dalla Libia, anche lui ha fatto lo schiavo, anche lui è stato torturato e picchiato in diretta telefonica con la famiglia, ha ancora il naso spaccato dal calcio di un kalashnikov di un aguzzino libico. Anche la sua famiglia si è coperta di debiti per farlo rilasciare e mettere su una barca che lo avrebbe dovuto portare in Italia. Quando gli chiediamo come è stato soccorso in mare, ci racconta che la sua barca era «in avaria, ma vicinissima alla costa. Se avessi saputo che mi portavano qui, mi sarei buttato in mare perché ci potevo arrivare a nuoto, a Lampedusa». Il protocollo dell’accordo con l’Albania prevede che possano essere portati a Gjader solo naufraghi raccolti in acque internazionali, oltre le 12 miglia dalla costa.

Gli ospiti sono ancora frastornati dalla traversata e dalla rapidità con cui sono stati raccolti, portati in Albania, sottoposti alla prima videoconferenza con la commissione territoriale che potrebbe concedere loro l’asilo e dunque la libertà. Tutto è accaduto in 48 ore scarse. L’udienza con la commissione (composta da due funzionari del Ministero dell’Interno, un rappresentante della amministrazione comunale competente, quella di Roma nel loro caso, e un rappresentante dell’Unhcr) è durata pochissimo. Nessuno aveva preparato gli “ospiti” alla videoconferenza. Non sapevano nemmeno quale tipo di protezione o asilo avrebbero potuto ottenere e quali erano i motivi per ottenerla. E infatti, puntualmente, è arrivato il diniego della commissione.

Le facce dei migranti erano decisamente disperate e disperanti dopo l’arrivo della notizia la mattina di venerdì: «In che posto ci hanno messo? Perché siamo in carcere? Perché siamo stati sottoposti a quell’udienza in videoconferenza? Non abbiamo commesso reati, fate qualcosa per noi, vi prego». Ma l’unica cosa che abbiamo potuto fare era dar loro il numero verde per richiedenti asilo e migranti che Arci gestisce.

Ma verso la una, dall’Italia, arriva la sentenza del tribunale civile di Roma: il fermo è illegittimo. E non solo: i migranti devono rientrare immediatamente in Italia.

Cerchiamo di rientrare nel centro, ma i funzionari della polizia ci dicono che prima devono comunicare agli ospiti la notizia della sentenza, e che cosa sarebbe successo loro nelle successive ore. Quando finalmente ci lasciano andare dai ragazzi è buio, ma le loro facce sono comunque molto luminose. Incontriamo prima i bengalesi, tutti in fila davanti a uno dei box di metallo che fungono da abitazioni. Il ragazzo con cui avevamo parlato la mattina ci guarda e sorride. Dapprima sotto i baffi, poi il sorriso si allarga fino a diventare incontenibile e a diventare in un abbraccio e in un pianto liberatorio. «Siamo molto felici. Grazie, grazie per tutto quello che avete fatto», ci dicono. Noi gli spieghiamo bene, ripetendo le cose più volte, che appena arrivati in Italia devono chiamare il numero verde di Arci, e presentare immediatamente ricorso contro la negazione dell’asilo. Ancora abbracci, e addirittura un invito a cena dal gruppo degli egiziani. Anche a loro, dopo una serie di “pugnetti” e di “cinque”, spieghiamo che «Ora dovrete farvi assistere per fare ricorso contro la richiesta di asilo che vi è stata negata. E dovrete correre, non c’è molto tempo. E speriamo di rivederci in Italia da cittadini regolarizzati».

Dopo le pene dell’inferno che hanno vissuto, speriamo diventino presto italiani liberi. E festeggiamo per una volta un naufragio: quello del governo Meloni e della sua politica spericolata e illegale.