Il 26 marzo la Corte Militare Suprema di Appello ha rifiutato l’appello e confermato la condanna a morte per due studenti, Ahmed Amin al-Ghazali e Abd al Basir, accusati di far parte dei Fratelli Musulmani. La condanna può essere eseguita in qualsiasi momento. I ragazzi sono già in carcere dal 2016, in isolamento, trattati in modo inumano.
Tre civili sono stati giustiziati la scorsa settimana, ventinove negli ultimi quattro mesi. I processi sono stati tutti condotti da tribunali militari, che violano sistematicamente le minime garanzie procedurali.
Rischia la condanna a morte anche Mahmoud Abu Zeid, conosciuto come Shawkan. E’ un giovane fotogiornalista egiziano. Era stato arrestato nell’agosto del 2013 mentre, per conto di una agenzia britannica, seguiva la violenta repressione di una manifestazione dei Fratelli Musulmani al Cairo, durante la quale le forze di sicurezza egiziane uccisero seicento persone.
Altre settecento persone sono in carcere da allora, imputate in un processo ingiusto, condannato dalle Nazioni Unite, con l’accusa collettiva di omicidio, tentato omicidio, e appartenenza a una organizzazione illegale.
Il 3 marzo i pubblici ministeri egiziani hanno chiesto per tutti la pena di morte per impiccagione. Anche per Shawkan, che quel giorno era in piazza per svolgere il suo lavoro.
Shawkan è detenuto da quattro anni in attesa di processo nella famigerata prigione di Tora, a sud del Cairo, in barba alle norme del codice di procedura penale, che fissano a due anni il periodo massimo di detenzione preventiva per i reati più gravi.
È stato torturato più volte durante la detenzione. In carcere ha contratto l’epatite C, ma non gli vengono concesse le cure necessarie.
«Sono da mille giorni in una prigione senza aver potuto mai vedere un giudice. Mille giorni in una cella grande come una scatola di cerini. Sono innocente e per questo mi rivolgo a voi». Sono alcune righe della lettera che Shawkan è riuscito a far uscire dalla prigione.
Le prime firme sull’appello per la sua liberazione sono di Paola e Franco Regeni, mamma e papà di Giulio. Amnesty International segue il suo caso da tempo.
Le organizzazioni dei diritti umani egiziane, che resistono eroicamente alla stretta repressiva, fanno appello in queste ore a una speciale attenzione sui processi e i condannati a morte: temono che Al-Sisi approfitti delle elezioni presidenziali per un ulteriore giro di vite nella politica del terrore.