Una pagliacciata. Così molte autorevoli reti per i diritti umani e media indipendenti hanno definito le elezioni presidenziali in Egitto. Una pagliacciata tragica. Per gli egiziani naturalmente. Ma anche per la democrazia dell’Italia, dell’Europa, della intera comunità internazionale, che non hanno mosso un dito nei mesi in cui la farsa è stata preparata dal regime. E che si apprestano a riconoscerne i risultati, dopo che l’esito del voto sarà stato reso noto il 2 aprile.
Abdel Fattah Al Sisi corre da solo. C’è un solo altro candidato, Moussa Mustafa Moussa, personaggio semi-sconosciuto vicino ai servizi segreti, che guarda caso ha raccolto in poche ore le firme necessarie alla candidatura, si dichiara sostenitore di Al Sisi, ha fatto solo due comizi in campagna elettorale e più volte ha detto di non voler sfidare il presidente.
Tutti coloro che, seriamente, nei mesi passati hanno dichiarato l’intenzione di sfidare il dittatore nelle urne sono stati pesantemente dissuasi o incarcerati.
Ahmed Shafik, che era stato primo ministro nel 2011, è stato deportato dagli Emirati Arabi Uniti in Egitto in novembre, subito dopo aver espresso l’intenzione di candidarsi. Detenuto per parecchie settimane e minacciato apertamente, ha annunciato a gennaio di rinunciare alla candidatura.
Ahmed Konsowa, colonnello dell’esercito, è stato arrestato a novembre e condannato a sei anni di prigione da un tribunale militare per aver annunciato la sua candidatura indossando la divisa – Al Sisi fece esattamente lo stesso nel 2014.
Mohamed Anwar Sadat, nipote del presidente Sadat, a gennaio ha convocato una conferenza stampa per annunciare la sua candidatura, ma poi nell’incontro con la stampa ha dichiarato di dover rinunciare a causa delle minacce ricevute dal suo staff e delle grandi ombre sulla correttezza del processo elettorale.
Sami Anan, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito dal 2005 al 2012, aveva annunciato la sua candidatura a gennaio ed è subito dopo stato arrestato per incitazione contro le forze armate e diffamazione dello stato, insieme ad almeno trenta suoi sostenitori.
Khaled Ali, avvocato dei diritti umani, che l’Arci ha ospitato a Roma lo scorso anno, aveva annunciato la sua intenzione di candidarsi a fine dicembre, ma è stato portato sotto processo con accuse tese a gettare discredito, diversi suoi sostenitori sono stati arrestati e ha dovuto rinunciato alla campagna.
Al-Sisi punta a una percentuale di votanti almeno del 47 per cento, come nelle elezioni trionfali del 2014. E il regime sta facendo di tutto per ottenere il risultato.
Vicino ai seggi in alcune zone del paese l’esercito sta distribuendo pacchi di cibo, nelle città i negozianti sono stati obbligati a esporre manifesti a sostegno del presidente, le TV sono invase da spot elettorali e il Guardian riporta che le famiglie benestanti di Giza hanno offerto 10 sterline ai residenti più poveri per andare a votare.
Tutto sembra dire che lo stesso Al-Sisi sappia di non avere più il grande consenso delle precedenti elezioni, quando gli egiziani affidarono a lui il loro bisogno di stabilizzazione e sicurezza, dopo il suo colpo di stato nel luglio 2013 contro i Fratelli Musulmani. Al Sisi governa con la paura, la tortura, la pena di morte, la repressione. Con queste vincerà le elezioni. E con la benedizione della comunità internazionale, Italia in prima fila – in spregio alla democrazia, ai diritti umani, al diritto internazionale e a Giulio Regeni.