Se l’arresto di Lula è diventato un evento mediatico ripreso da ogni tipo di media in ogni angolo del mondo, poco o nulla si dice di ciò che succede in Brasile e poco o nulla si sa delle trame politiche che stanno rivoltando come un calzino il corso politico, economico e sociale del più popoloso e potente paese dell’America Latina.
I tredici anni di governo del PT (Partito dei Lavoratori) hanno interrotto una storia di governi e di regimi militari che hanno fatto man bassa di risorse naturali, di concentrazione di potere e di ricchezza, dalla colonia in poi.
Una storia che si è interrotta, dopo cinquecento anni, con l’esperienza e le lotte delle comunità di base, dei movimenti popolari e di occupazione delle terre, con la nascita della CUT, il sindacato indipendente e quindi del PT, il partito dei lavoratori, che in poco più di vent’anni ha conquistato il governo delle città, poi degli stati per arrivare, al quarto tentativo, alla presidenza del paese. Una rivoluzione sociale senza precedenti, avvenuta per la via democratica, dal basso, partecipativa, con un programma riformista, di dialogo e di riconciliazione.
Una storia nota e riconosciuta a livello mondiale, che ha visto la figura di Lula, il sindacalista, con la sola scuola dell’obbligo, barbuto, di sinistra, trasformatosi in statista di livello mondiale, protagonista dal G20, a Davos, come al Social Forum o alle Nazioni Unite, capace di dialogare con Bush e Obama, come con i Sem Terra e con gli indios dell’Amazzonia, promotore dei BRICS e dell’UNASUR.
Una storia che ha restituito dignità, cittadinanza, lavoro e condizioni di vita umane a milioni di brasiliani che fino ad allora erano fuori dal sistema, discriminati per essere afro-discendenti o indios o abitanti delle favelas o contadini senza terra, ignoranti, buoni solo per servire un padrone, indegni di frequentare una scuola, tanto meno un’università o fare la coda alla cassa di un supermercato con i bianchi, le persone per bene. Una storia che ha scombussolato gli equilibri mondiali, mettendo in discussione il potere stabilito dal consenso di Washington, mettendo sul tavolo il peso ed il protagonismo dei paesi emergenti.
Lula ed il PT senza dubbio hanno fatto degli errori, e chi ha responsabilità e colpe penali è giusto che sia oggetto di indagine e che la giustizia faccia il suo corso, senza eccezione alcuna, su questo principio non esistono se e ma.
Ma ciò che sta accadendo in Brasile è altro. È l’uso della giustizia, da parte dei poteri forti, per regolare i conti con Lula e con il PT, non per aver praticato, male, il loro sistema di corruzione, ma per aver dato voce, dignità, diritti a quella popolazione che per cinque secoli è stata al loro servizio, in quanto classe dominante. È il tentativo di restaurare quel sistema post coloniale, interrotto dal governo del PT, riportando il sistema democratico ad un mero ruolo formale, di facciata, com’è sempre stato. È ristabilire il potere originario, discendente dalla colonia, formatosi con la proprietà delle terre, con i frutti delle piantagioni, delle miniere, delle industrie che detiene il pieno controllo della politica, della giustizia, dei mezzi di comunicazione e della finanza, un concentrato di potere nelle mani di poche famiglie e gruppi di interesse chiusi, ristretti ed inaccessibili. Un sistema impensabile per chi non conosce la storia dell’America latina.
Questi poteri hanno dato l’assalto alla democrazia partecipativa ed al processo di emancipazione del popolo brasiliano, alla estensione dei diritti politici, civili, economici e sociali costruendo prima la destituzione della prima presidente donna del Brasile, Dilma Rousseff, per poi colpire il vero bersaglio politico, Lula, ancora oggi, il leader più amato e rispettato dalla maggioranza dei brasiliani, sicuro candidato vincente per le prossime elezioni di ottobre, se gli fosse permesso di parteciparvi.
In meno di due anni, chi ha architettato ed eseguito la destituzione di Dilma, ha decretato la fine della politica sociale, il taglio delle spese all’educazione, alla sanità, avviato una politica di smantellamento dei servizi e delle imprese pubbliche, la precarizzazione del lavoro, la riforma pensionistica, la militarizzazione del territorio e la mano libera alla repressione di stato nelle favelas, che ha portato all’assassinio della leader dei diritti civili, Marielle Franco, uccisa per le strade di Rio de Janeiro da proiettili in uso alle forze di polizia. Ma il disegno di restaurazione comprende la criminalizzazione di Lula per chiudere i conti definitivamente con la parentesi di emancipazione politica e sociale.
Lula non si è sottratto alle accuse, ha rivendicato la sua innocenza senza sottrarsi alla giustizia. In cambio, l’operato della giustizia, per tempistica e per ingerenza mediatica, rappresenta un’eccezione nella prassi e nell’applicazione del diritto, a dirlo sono giuristi brasiliani e di altri paesi. Ma la posta in palio è il Brasile, la sua democrazia, i diritti, la giustizia sociale, l’eliminazione dei privilegi e dell’ineguaglianza. Lula ha dedicato la sua vita a queste lotte, è la sua storia che lo dice e milioni di brasiliani che credono nella sua onestà e sono pronti a votarlo alle prossime elezioni. Escludere Lula dalle prossime elezioni presidenziali è togliere al Brasile la possibilità di proseguire per la via dell’emancipazione e dell’affermazione dei diritti universali.