Il regista brasiliano Julio Bressane ha dichiarato anni fa che il cinema attraversa lo spettatore e la sua società, trapassando corpi, menti e sensibilità. Se il cinema ha (ancora) questa capacità affettiva, prima ancora che intellettuale, di sconvolgere lo sguardo di coloro che si fermano in una sala buia per osservare ininterrottamente uno schermo bianco illuminato da immagini in movimento, questo credo sia possibile verificarlo in alcuni festival di cinema, frequentati da masse di critici militanti, spesso alla ricerca di un senso, a sua volta troppo spesso schiacciato dal pericolo sempre incombente del ‘contenutismo’ o dalla ricerca rigorosa della forma perfetta. Oggi, critici come Enrico Ghezzi o Roberto Silvestri sono e restano in tale senso fondamentali punti di riferimento nel (farci) ri-considerare tutta la profondità di questo attraversamento, anche violento, del cinema rispetto (non solo) agli occhi spalancati dei suoi fruitori.
Il cinema ci attraversa, facendo riverberare dalla nostra pelle, per poi rimbalzare sul pubblico dibattito, frammenti di immaginario collettivo, rivoli di inconscio, immagini segrete, connessioni inusuali.
Insomma, l’inimmaginabile. In questo crogiuolo estetico, ma percettibilissimo, è la luce del cinema che riesce a risollevare col suo linguaggio antiche questioni, costantemente sopite e riemerse.
Dalle tante visioni che ha offerto quest’anno la Mostra del Cinema di Venezia, un’edizione particolarmente vivace per opere, autori e partecipazione di pubblico, ma nella quale la critica non ha mostrato interesse nel rintracciare un filo rosso in qualche modo decisivo, le suggestioni più forti che sono emerse in me hanno tracciato un percorso che mi parla della crisi della sinistra. Tematica ridondante, ma che alcuni film hanno riproposto con forza, forse inconscia.
Non si può non partire da una piccola isola. Non mi riferisco qui al Lido di Venezia, quasi un isola-corridoio. Ma alla circolarità più precisa dell’isola di Utoya, un piccolo paradiso naturalistico gestito da associazioni giovanili norvegesi legate al Partito Laburista, che ha retto per molte legislature il governo norvegese.
Il regista britannico Paul Greengrass, già autore di Bloody Sunday nel 2002 e narratore cinematografico delle oscillazioni tragiche tra storie individuali e Storia, ha portato quest’anno alla Mostra la sua ultima opera, 22 July, che racconta le drammatiche vicende legate della strage organizzata da un’estremista di destra nazistoide sull’isola di Utoya ai danni di giovanissimi ‘laburisti’ durante un gioioso campo estivo, e preceduti da una bomba esplosa ad Oslo.
Il film è cristallino, lineare, onestamente didattico, scade forse solo nel finale quando l’autore della strage, Anders Breivik, abbassa la testa durante il processo ascoltando le parole del più coraggioso tra i ragazzi sopravvissuti. Greengrass sembra perdere in quel momento il controllo della faccia di Breivik, fondamentale nella sua glacialità per inquadrare un discorso sulla crisi della sinistra.
La sinistra scandinava è quella migliore, è quella che di fatto ha sviluppato il modello più efficiente di welfare, è quella che ha governato la gran parte del Novecento, imponendosi addirittura come un punto di riferimento. E tuttavia nel 2011 si ritrova davanti quella faccia incolore, ferma, impassibile, quasi di lucida follia.
Il film in realtà racconta la storia di questo asociale di simpatie naziste, lo segue dalla partenza del suo piano omicida fino agli ultimi attimi del processo che lo condannerà al carcere.
L’utopia rinascimentale di Tommaso Moro, martire cattolico inglese che immaginò nell’omonimo romanzo cinquecentesco un’isola perfetta, dedita alla pace, alla giustizia e alla cultura, che sembra riecheggiare nelle prime scene del film, in cui giovani socialisti immaginano di diventare primi ministri per battersi in favore di integrazione e antirazzismo, diventa molto presto nel film l’Utoya (che ha perso la sua “p” di politica, di pace, di progresso) della carneficina di gioventù socialista. Tutto il film è nello sguardo gelido (e altrove) di Breivik su cui torna spesso la macchina da presa. Uno sguardo indecifrabile. Certo, lo sguardo di uno squilibrato assassino, ma caratterizzato da lineamenti, sfumature e contorni che costituiscono un enigma. Breivik parla poco, guarda molto. La sinistra norvegese, epifenomeno di una centenaria cultura europea, non riesce a leggere quell’enigma, non riesce a uscire dalla costruzione del suo paradiso socialista per sprofondare in quegli occhi sbarrati che richiamano altre stragi, altre vendette, altri attentati. Le immagini del film restituiscono indirettamente questo spaesamento, mentre lo sguardo di Breivik diventa lo specchio nero delle più scottanti problematiche sottotraccia dell’intera Europa, dentro cui si agitano i fantasmi delle nuove povertà, del crollo dei valori comunemente accettati, delle tanti migrazioni.
Questi fantasmi ci attraversano in sala, ripercorrendo la storia della sinistra nel Novecento. Una strage che parla forse più agli italiani che non ai norvegesi. Una strage esemplare e, a suo modo enigmatica. Una strage su un’isola. Anche Capri è un’isola, sfacciatamente europea e culturalmente stratificata. Mario Martone l’ha raccontata alla Mostra del Cinema attraverso il film Capri-Revolution, che sembra chiudere la sua trilogia risorgimentale. Ancora un’isola per parlare di storia, di politica, di potere, di stragi.
Con questo film Martone arriva ad una grande maturità artistica ed intellettuale, liberandosi ancora di più della zavorra pesante del reale – quello di chi crede che il cinema del reale racconti di conseguenza il reale, o che lo sappia raccontare meglio di un film di zombie – per librarsi in aria, come fa ad un certo punto la giovane protagonista, o per far galleggiare le vicende storiche narrate sull’acqua.
Quest’ultima e sorprendente leggerezza martoniana ci attraversa raccontandoci un’altra utopia, quella di una comunità internazionale di giovani che, cento anni prima della strage di Utoya, provano a rifondare una comunità, un’idea di sinistra. Sono belli, nudi, appassionati, mistici, sono consapevoli dei fantasmi che hanno dentro di loro e provano a farli emergere: la psicoanalisi, i riti dionisiaci, l’opera d’arte totale, sacrifici animali al chiaro di luna. Martone racconta la complessità di una sinistra in fieri.
I loro corpi trasudano sogni, le loro mani lavorano la natura, le loro idee non si negano alle prime violente scissioni o alla dialettica con l’egemonia marxista. L’isola di Capri racchiude la danza di questi corpi, la nuova comunità umana, rappresentata paradossalmente prima di essere formalizzata dalla penna di Tommaso Moro e che mai avrebbe immaginato la carneficina norvegese. Ma poi arriva la prima guerra mondiale: arriva una sistematica carneficina di massa e cade qualunque orizzonte di gloria di kubrickiana memoria.
La contadinella di Capri-Revolution – Martone coraggiosamente riprende un sostantivo, ormai desueto, in chiave internazionalista – dopo avere appreso sulla sua pelle ‘una’ storia della sinistra e averla usata come lente per vedere il disastro imminente di tutto, sceglie di partire, anzi di scappare, di sopravvivere. Immagina un’altra sinistra. Lascia la sua isola, la sua nave forse la porterà in America. Ma il titolo del film di Martone, ripeto, parte da un isola. Perché ancora isole in questi film così profondamente ‘politici’? Forse perché la loro terrena con-clusione diventa facilmente metafora di comunità, un luogo stretto e chiuso – il mondo? – in cui uomini e donne non possono non provare a stabilire delle relazioni, delle regole, dei compromessi.
Forse l’isola è il luogo più umano e di sinistra che si potrebbe immaginare. Ma anche più cinematografico. Basti pensare al fatto che uno dei più suggestivi festival cinematografici degli ultimi anni (diretto da Enrico Ghezzi) si svolgeva a Procida, che a giugno si bagnava di immagini, di jam session, di parole. Insomma, di quella materia scivolosa di cui è fatto il cinema.
Le ultime immagini del film di Martone partono da un’isola e rimandano, dunque, verso un altrove.
Un altro luogo, un altro tempo, un’altra sinistra. Se sono gli Stati Uniti la meta di quel viaggio, come non pensare alla sinistra roosveltiana dei successivi anni Trenta, capace di approssimarsi al socialismo attraverso il capitalismo e che si è efficacemente raccontata (soprattutto) attraverso il cinema? Come non pensare nelle giornate veneziane in sala all’ultimo film di Orson Welles – cinema che non muore e che risorge, come dovrebbe fare una sinistra capace di specchiarsi e poi rifrangersi nel cinema? Bisogna ricordare l’Orson Welles militante politico, il giovane attore che fu messo a dirigere il Federal Theatre Project, il progressismo americano capace di sconfiggere il nazismo (a partire dal cinema e dal racconto della guerra di tanti futuri cineasti). The other side of the wind, quello stesso vento che spirava a Procida fino a qualche anno fa e che ci attraversava con forza pelle e polmoni, corpo e mente.