A Strasburgo, nell’assemblea plenaria del Parlamento europeo, è stata votata a larga maggioranza la proposta di direttiva «sul diritto d’autore nel mercato unico digitale» (2016/0280), che ora può andare avanti nel suo iter. È stato il secondo tempo di una partita iniziata nella seduta dello scorso 5 luglio. Allora le divisioni furono trasversali e il progetto fu bloccato. Divisioni e incertezze permanevano. Il relatore (dei popolari) Axel Voss è riuscito a ricucire parzialmente una tela brutalmente strappata. Ma il rischio concreto è che si faccia il bis della puntata precedente. Nel 1999 il relatore della direttiva omologa – Roberto Barzanti, del gruppo socialista- riuscì nell’impresa, ma la legislatura si concluse prima dell’approvazione finale che richiede la concertazione tra commissione, parlamento e consiglio. Il testo vide la luce solo nel 2001, nella legislatura successiva (2001/29/CE). La differenza, però, sta nello scenario che fa da sfondo. Alle forze di destra e neo-sovraniste che potrebbero rafforzarsi molto il prossimo anno che interesserà del diritto d’autore?
Lo scenario prevedibile è quello già visto in giro per il mondo, vale a dire la ‘naturale’ alleanza tra gli Over The Top (da Google a Facebook) e i regimi autoritari. C’è un nesso indissolubile, infatti, tra gli oligarchi dei dati e i paesi meno democratici: il controllo e la sorveglianza sui cittadini-sudditi, buoni come corpi dell’immenso mercato virtuale e meno buoni come esseri pensanti e decidenti. Purtroppo, la rete dei primi anni, libera e innocente, non esiste da tempo. La verità di Internet o, meglio, del 3/5% visibile (il resto è dark, deep) è densa di aree grigie. Anche per questo è meglio scegliere per il meno peggio. Perché il meglio è lontano, ed esige una riconsiderazione profonda della categoria stessa di proprietà intellettuale nell’era digitale. La zuffa delle ultime settimane, infatti, è alquanto arretrata.
Da una parte, appropriandosi della bandiera della libertà (anche grazie all’assenza dal campo o alla debolezza di chi avrebbe dovuto sbandierarla), gli aggregatori di dati hanno inteso approfittare della debolezza ‘storica’ dei produttori di contenuti per tentare di imporre – ad esempio – la gratuità della diffusione di parti degli articoli, i cosiddetti snippet. Dall’altra, però, le organizzazioni degli editori e le associazioni autoriali si sono un po’ troppo attardate su di una linea difensiva, troppo legata all’immaginario analogico. Centrato, quest’ultimo, sul concetto di opera finita e delimitata nello spazio e nel tempo. Il digitale è il regno dell’in-finito, dell’ipertestualità, della mobilità creativa. Insomma, la lotta non è tra il Bene e il Male, bensì tra un Cattivo moderno e un Buono vestito all’antica.
Ciò significa che non è da tutelare il lavoro intellettuale? Al contrario, è urgente proprio trovare i modelli adeguati per remunerare l’arte, la cultura e l’informazione in una stagione in cui un millennial scarica qualsiasi cosa senza sentirsi un reo e Netflix vince con i suoi film a Venezia. Non solo. Ai signori dei dati bisognerebbe innanzitutto imporre di pagare le tasse e di rendere trasparenti i loro terribili algoritmi.
In concreto, si tratta di definire una sorta di ‘compromesso per l’alternativa’. Pur con la consapevolezza che una vera riforma va ri-costruita, la proposta passata ha almeno un po’ corretto il brutto articolo 13 che conteneva il rischio di un filtro preventivo sui contenuti, per prevenire eventuali infrazioni del copyright.
Se non si fa chiarezza (e ancora è da farsi), si tratta di censura, affidata tra l’altro agli Over The Top. Assurdo e persino surreale. Il tema degli snippet può essere sdrammatizzato, se si negozia la loro entità, senza l’invasione sguaiata delle piattaforme nei territori di altri.
È stato certamente un voto contrastato. Tanta confusione è stata fatta, forse pure nei commenti a botta calda, più adatti alle tifoserie. Il governo italiano è critico, come prima più di prima. Forse dal Mibact qualche accento diverso, almeno stando ai convegni. E in questa storia si è disvelato un lobbismo davvero inquietante, che è sempre un pessimo segno.
È utile, dopo gli emendamenti, che il testo possa andare avanti, accompagnato – però – da un serio dibattito pubblico. Perché l’Italia non promuove una specifica conferenza?