È ancora da festeggiare il 1 maggio? In questi anni, ormai più di un decennio, il lavoro ha visto le sue crisi peggiori e ancora più in Italia rispetto ad altri Paesi. Il tasso di occupazione sta recuperando, ma rimane ancora migliore solo rispetto a quello della Grecia. Il lavoro cambia, per forza di cose, con l’avanzare dell’economia. Ma nel cambiare pelle sono spariti un milione di artigiani e operai, molti giovani sono ancora inoccupati. Affrontare la Festa del Lavoro mentre tutti i dati ci dicono che il lavoro italiano è così poco e malpagato, sfrangiato, intermittente, al punto da registrare fenomeni di emigrazione conosciuti solo all’inizio del secolo scorso, è oggettivamente complicato. E il primo maggio non può certo abbandonare le sue connotazioni politiche per trasformarsi in evento musicale. Riflettere sulla condizione del lavoro, su chi non ce l’ha e su chi è sottopagato, sulle tante (troppe) morti sul lavoro: è questa la base valoriale e politica di una festa che non può essere condannata come un rito fuori dal tempo. La politica, i sindacati in questo compito hanno un ruolo centrale. I partiti e il sindacato devono indicare la strada di come invertire la tendenza, se intendono occuparsene. La società civile, l’associazionismo, noi compresi, non intende rinunciare alla Festa del Lavoro. La Repubblica è davvero fondata sul lavoro, gli italiani restano grandi lavoratori, capaci di attraversare i confini pur di lavorare, e se c’è un problema non è certo lo smarrimento della cultura del lavoro, ma la difesa dei diritti e delle garanzie che devono accompagnarlo.