Il premio è stato consegnato alla 15^ edizione del Biografilm Festival - International Celebration of Lives
È stata un’edizione ricchissima e intensa, la 15^ del Biografilm Festival – International Celebration of Lives che si è appena conclusa a Bologna.
I numeri sono impressionanti: 109 i film presentati, 73 le anteprime nazionali, 27 le opere prime, oltre 150 gli ospiti italiani e internazionali, tra cui vanno segnalati almeno un maestro del cinema contemporaneo quale Werner Herzog e l’attore forse più iconico del cinema francese, Fabrice Luchini.
Restando ai numeri, è il 3° anno consecutivo che Ucca è partner del Festival bolognese, dove tiene il proprio Consiglio nazionale (quest’anno sdoppiato in due lunghe sessioni per il numero e la complessità dei temi all’ordine del giorno) e soprattutto assegna un premio ufficiale al miglior documentario italiano, destinato ad entrare nella prossima rassegna itinerante L’Italia che non si vede.
All’interno di una sezione stimolante, composta di 10 titoli inediti per il nostro Paese, la giuria Ucca, formata da Chiara Malerba, Sabrina Milani e Angela Petruzzelli, ha optato all’unanimità per La scomparsa di mia madre di Beniamino Barrese, che aveva avuto la sua prima mondiale al Sundance nello scorso gennaio.
Il film ritrae Benedetta Barzini, uno dei volti più significativi della moda italiana e internazionale degli anni Sessanta, a 75 anni, stanca dei ruoli in cui la vita l’ha costretta e decisa a lasciare tutto per raggiungere un luogo lontano, dove non essere mai più trovata.
Cresciuta in una famiglia dell’alta borghesia milanese (il padre Luigi era inviato del Corriere della Sera, la madre era Giannalisa Feltrinelli), esordisce nella moda in modo assolutamente casuale, venendo notata in una via di Roma dalla direttrice di Vogue Italia. È sufficiente l’invio di una fotografia alla casa madre a New York, all’attenzione della caporedattrice Diana Vreeland, per iniziare, a vent’anni, la carriera di modella con un servizio fotografico di Irving Penn.
Avrebbe dovuto restare 10 giorni, vi rimane 5 anni. Un lustro in cui, davanti all’obiettivo di Bert Stern e Richard Avedon, con il suo volto segnato, antico, diventa la sofisticata interprete di quel look esotico-mediterraneo che tanto piaceva agli americani, diventando top model di tutti i massimi fashion-brand dell’epoca e instaurando rapporti di amicizia con Andy Warhol e Salvador Dalì.
Ma questa è solo la prima vita di Benedetta Barzini.
Nonostante il successo, l’insoddisfazione di essere considerata solo una pretty face è già presente nel suo animo. «È stato a quel punto che ho capito che la bellezza è una seccatura». Rientrata in Italia negli anni Settanta, lascia l’attività di modella, diventa attivista dell’estrema sinistra e inizia a lottare per l’uguaglianza di genere e contro la mercificazione del corpo femminile. Inizia una carriera di giornalista militante e, a partire dagli anni Novanta, insegna antropologia della moda con un approccio radicalmente femminista e anticapitalistico. «Perché l’imperfezione dà tanto fastidio?», la sentiamo chiedere ai suoi studenti universitari (in maggioranza donne) in una scena del documentario.
Per questo il figlio Beniamino Barrese vuole realizzare un film su di lei, che possa tramandarne la memoria, ma anche aiutarla ad afferrare la libertà che cerca, nel tentativo di ritrovare sua madre e insieme di lasciarla andare. Paradossalmente di testimoniare con una videocamera il suo rifiuto di quelle immagini che l’hanno accompagnata, inseguita e spesso perseguitata.
Un film che vive su questa dialettica e trova i suoi momenti più riusciti proprio nell’ incontro/scontro, spigoloso e delicato, tra un figlio e una madre.
Un’opera emozionante, che va ad aggiungersi ad altri titoli importanti già selezionati per l’edizione 2019/20 dell’Italia che non si vede, da Normal di Adele Tulli, a Selfie di Agostino Ferrente a Dafne di Federico Bondi, tre film presentati con successo all’ultima Berlinale.