Le inaspettate dimissioni del primo ministro libanese Saad Hariri restano per gli esperti di politica mediorientale di controversa decifrazione.
L’unica cosa certa è che il Paese dei cedri, dopo aver conosciuto un anno di stabilità in seguito alla difficoltosa elezione del presidente della Repubblica Aoun, viene riportato in una complessa crisi politica che lascia intravedere scenari molto poco rassicuranti.
Fa molto discutere la maniera con cui Hariri, sunnita e figlio del presidente Rafiq assassinato in uno spettacolare attentato nel 2005, ha reso le dimissioni, diffuse in un video mentre si trovava all’estero, in Arabia Saudita.
Le parole che ha usato hanno stupefatto la comunità libanese: «il mio sesto senso mi dice che alcuni mi vogliono morto. C’è un clima molto simile a quello che precedette l’assassinio di mio padre il 14 febbraio 2005. Non permetteremo che il Libano diventi l’innesco dell’insicurezza regionale. Le mani dell’Iran dagli affari del mondo arabo verranno recise». Ed ancora: «Iran e gli Hezbollah hanno riportato l’Iran al centro della tempesta, e l’Iran semina destabilizzazione ovunque intervenga». Parole durissime e sorprendenti in primo luogo per la comunità sunnita libanese di cui Hariri è leader, ma soprattutto per il partito filoiraniano Hezbollah che presta quattro ministri al suo governo. Prevale lo smarrimento, anche perché, ed è un giudizio unanime in Libano, il paese attraversava un periodo positivo e di relazioni distese e produttive tra le comunità in cui è ingessato il suo sistema istituzionale. E questa stabilità politica aveva garantito anche la tenuta sociale del Paese, minata da un malcontento diffuso dovuto alla convivenza di ormai oltre un milione e mezzo di profughi siriani con tre milioni e mezzo di Libanesi. Cosa è successo dunque? I commentatori indipendenti locali riportano la notizia di numerosi viaggi lampo di Hariri a Riad, di un numero tale da obbligarlo a specificare, solo una settimana prima delle dimissioni, che l’Arabia Saudita, molto influente sulla comunità sunnita, avrebbe rispettato la stabilità del governo. Ma la realtà più evocata è che sia proprio il nuovo re saudita Salman ad aver chiesto a Hariri di dimettersi con lo scopo di inquinare il clima positivo nel paese e trasferirvi le stesse tensioni intercomunitarie dominanti in Siria, nello Yemen ed in Iraq. Perché il tandem con il presidente cristiano Aoun stava funzionando bene e la pianificazione di interventi strutturali portava consenso popolare all’inedita alleanza dei sunniti con Hezbollah, fatto insopportabile per la dittatura saudita.
La famiglia di Hariri peraltro è assai prossima per interessi e visione politica a due dei potenti principi che il giovane re Salaman ha incarcerato, uno di essi, Al Walid, di madre libanese è popolarissimo nella comunità sunnita di Sidone e Tripoli per le moltissime operazioni di beneficenza.
Hariri dunque si è trovato senza copertura politica proprio nel paese che lo ha sempre appoggiato, in uno scenario complesso, di radicalizzazione dello scontro tra sunniti e sciiti a livello di quadrante geografico, parallelo e sincrono con la volontà dell’amministrazione Trump di creare tensione con l’Iran, in una fase in cui le battaglie in Siria e in Iraq acuiscono la tensione tra le superpotenze mondiali per la spartizione delle sfere di influenza e dei bacini di idrocarburi mediorientali.
Ora i Libanesi ascoltano preoccupati i tuoni di una tempesta che viene ancora una volta da quella centrale di terrore che è il regime wahabita di Riyad. Le persone attive in Libano nelle organizzazioni partner dell’Arci in tanti progetti di solidarietà internazionale commentano sconsolate che il paese è troppo piccolo e vulnerabile per poter ambire alla stabilità politica e sociale e che l’influenza delle potenze estere continua, come nella sua tragica storia recente, a determinare il futuro dei Libanesi.