Da Telecom ad Autostrade, gli effetti delle oscene privatizzazzioni degli anni 90 presentano il conto a un paese condannato al declino industriale.
L’Ilva è l’ultimo sintomo di una malattia estesa: la politica è incapace di scegliere vie alternative a quella di affidarsi a un’imprenditoria predatoria che restituisce solo macerie. Quando nel 2012 i magistrati tarantini sequestrarono gli impianti dopo l’inquinamento ventennale perpetuato dalla famiglia Riva, politici e industriali accusarono i pm di fare il gioco dei concorrenti europei che volevano chiuderla. Cinque anni dopo l’impianto è stato venduto al principale di quei concorrenti, ora intenzionato a chiuderlo.
È servita una dozzina di decreti “salva Ilva” per disinnescare i pm e continuare a produrre avvelendando i tarantini. Un’ecatombe di morti sul lavoro e per l’inquinamento. Oggi allo Stato tocca rimediare ad anni di gestione dissennata, ma i cittadini vengono distratti dal dibattito sulla reintroduzione dello scudo penale per i gestori dell’impianto. La politica deve prendere una decisione: salvare la più grande acciaieria d’Europa, con soldi dello Stato per ridurre l’inquinamento, o chiuderla. Invece da 7 anni rinvia il problema, uccidendola lentamente. E con essa i tarantini.