Il 2017 non è stato un anno fortunato per il cinema italiano. Inteso in primo luogo come industria. Disaffezione del pubblico. Crollo al box-office. Quota di mercato dimezzata (gli incassi dei film nazionali sono passati dal 31 al 16% del totale). Commedie-fotocopia, nessun Checco-Zalone-salva-stagione all’orizzonte. Grave sofferenza sia dei multiplex che delle sale d’essai. Nuove chiusure annunciate e in corso. Una pletora di inutili convegni su ‘dove va il cinema italiano’ e ‘come rilanciare il cinema italiano’.
Con la stucchevole riproposizione dei soliti problemi, sempre gli stessi, cui nessuno ha (almeno) tentato di porre un argine.
La stagionalità: rispetto agli altri paesi in Italia durante l’intera estate non escono film importanti. L’accesso al prodotto: gli esercenti non possono scegliere i film da programmare nelle loro sale. Il sovraffollamento di titoli simili: si cannibalizzano a vicenda, in pochi mesi, talvolta in poche settimane, per cui nessuno di essi può realizzare la sua migliore performance. L’eccessivo numero di film prodotti e distribuito rispetto alla capacità di assorbimento del circuito.
L’invecchiamento del pubblico e il mancato ricambio generazionale. E certo, la pirateria, poteva mancare? Come se esistesse solo in Italia. I rimedi sarebbero talmente banali che non vale neppure la pena elencarli. Quella che manca è la volontà di perdere risibili rendite di posizione da parte di un comparto caratterizzato da rara litigiosità e scarsa lungimiranza.
L’assenza di una vera strategia di medio periodo che dovrebbe coinvolgere tutta la filiera. Meglio l’immobilismo, guai uscire dalla propria comfort zone per applicare pratiche che funzionano perfettamente all’estero.
Il cinema d’autore, dal canto suo, sta inevitabilmente scontando le stesse contraddizioni sistemiche. Con l’ulteriore handicap che non esistono (più) ‘blockbuster d’essai’ che ridiano fiato ad esercenti stremati e sfiduciati. Alla Mostra di Venezia i quattro titoli italiani in competizione hanno decisamente abbassato la media qualitativa di un concorso eccellente. E gli innumerevoli film nazionali spalmati nelle altre sezioni sono usciti in contemporanea senza lasciare traccia al box office. Letteralmente invisibili.
In definitiva: un anno di (faticosa) transizione. Perché anche la politica non ha aiutato. Dopo l’approvazione della Legge Cinema nel novembre 2016, per i relativi decreti attuativi si è dovuta aspettare un’eternità: un cantiere aperto che ha lasciato i player del comparto in uno stato di totale incertezza e paralisi.
Eppure il giovane cinema italiano ha dato segnali di insperata vivacità. In un anno nel quale sfortunatamente i maestri non avevano opere pronte per competere nel grande circuito festivaliero internazionale.
Ecco, ‘i maestri’. Con le virgolette.
Fermiamoci un attimo a riflettere. I maestri sono stati a loro volta esordienti. E i loro primi film sono circolati solo grazie ai circoli del cinema.
Quando è uscito L’uomo in più Paolo Sorrentino era un illustre sconosciuto. E il suo profilo non era cresciuto di molto anche qualche anno più tardi, all’epoca di Le conseguenze dell’amore.
Di Matteo Garrone il grande pubblico si è accorto con Gomorra, ma i cinefili più avvertiti avevano già apprezzato Terra di mezzo, Ospiti, Estate romana e L’imbalsamatore.
Per non menzionare Nanni Moretti, il cui esordio, Io sono un autarchico, girato in Super8, fu addirittura gonfiato in 16mm e distribuito in Italia da Arci-Ucca.
Se il mercato si accorge di un autore quando diventa vendibile, il nostro compito è quello di renderlo visibile. Di accompagnarlo nel circuito dei festival, se si è formato nei nostri atelier di produzione. Di proporne le opere ad una platea ancora sparuta ma esigente se invece dai festival è già stato selezionato e magari premiato. Di perseverare a scegliere film difficili in un frangente in cui l’omologazione linguistica sembra avere appiattito ogni contenuto, complice la sin troppo decantata qualità della serialità televisiva, che sembra già avere il fiato corto.
Nel giovane cinema italiano, si diceva, ci sono fermento e segnali tangibili di un salutare ricambio generazionale.
Il cinema del reale sembra finalmente uscito dalla storica gabbia autoriale dell’autoreferenzialità.
È vitale e testardo, scalcia e sgomita. Sconta le sue imperfezioni, certo, ma è sfrontato e coraggioso. E non teme di sporcarsi le mani. Su temi rimossi o banalizzati dal cicaleccio incessante dei talk show televisivi. Si oppone allo sdoganamento mediatico di razzismo e intolleranza con l’esempio dell’attivismo solitario di una donna comune, e perciò straordinaria (The Hate Destroyer). Affronta il tema delle migrazioni rovesciandone l’ottica, adottando il punto di vista di chi, in Nigeria, è combattuto tra l’aspirazione ad una vita dignitosa e il timore per il lungo e rischioso viaggio che dovrebbe affrontare (Granma).
Oppure si concentra sulla auto-narrazione della vita difficile eppure coloratissima di un’immigrata che, attraverso le sue fotografie, racconta se stessa e la sua Europa ai figli rimasti in Africa (Ibi).
O ancora, apre le porte di un penitenziario per mostrarci la psicologia disturbata e disturbante dei condannati per reati sessuali e le terapie sperimentali messe in atto per la presa di coscienza della gravità dei loro comportamenti e per scongiurarne le recidive (Un altro me). Ma anche il riscatto impossibile di un ex-pregiudicato della periferia romana, con l’aspirazione ad un’esistenza diversa per sé, la sua famiglia e la borgata in cui vive (Il più grande sogno). E ancora: la macchina burocratica dell’Istituto Autonomo per le Case Popolari di Napoli rappresentata quasi come un palcoscenico, nel quale sono gli impiegati a garantire il funzionamento del sistema con la loro capacità di far fronte all’imprevisto con soluzioni creative, al di fuori di ogni schema o protocollo (Aperti al pubblico).
Opere che si confrontano con la Storia offrendone sguardi inediti. Come l’analisi del ruolo delle donne nella Resistenza italiana, che enfatizza la prima vera esperienza di emancipazione femminile, ma non nasconde una riflessione amara sulla delusione provocata dalla ‘restaurazione’ del primo dopoguerra (Libere).
O il divertito racconto del più clamoroso attentato mai immaginato, quello contro Hitler e Mussolini, che un celebre archeologo architettò ma non ebbe il coraggio di compiere durante il celebre viaggio del Führer in Italia nel 1938 (L’uomo che non cambiò la Storia). O il prezioso recupero del materiale ripreso da Angelo D’Alessandro, l’unico cineasta cui Don Lorenzo Milani abbia concesso di effettuare delle riprese della vita quotidiana della sua scuola, rivolta soprattutto agli ultimi, ai figli degli operai e dei diseredati (Barbiana ’65 – La Lezione di Don Milani).
E infine due figure di donne forti, caparbie, testarde. Christa Päffgen, in arte Nico, colta nel suo ultimo anno di vita, ben lontana dal glamour degli uomini famosi che ha frequentato o dall’esperienza Factory-Warhol-Velvet Underground: il ritratto dolente di una musicista complessa che ha creato uno stile unico, capace di coniugare ricerca, ironia e provocazione (Nico, 1988). E la molto meno celebre Chantal Ughi, capace di abbandonare palchi, passerelle e set cinematografici per liberarsi dei propri demoni, reinventandosi, rimettendosi in gioco e ingaggiando un combattimento costante sul ring e nella vita (Ciao amore, vado a combattere). Ci piace chiudere con le sue parole, che mai ci sono apparse così attuali e che volentieri facciamo nostre: «Vorrei dedicare questo film a tutte le donne che hanno subito violenza. Vorrei far sapere loro che ci sono modi per combattere il passato e liberarsi, per risorgere dalle ceneri e rinascere».