Poco più di 2 settimane fa avrebbe compiuto 200 anni, il suo pensiero è una pietra miliare dell’analisi economica e sociale, ancora oggi le sue idee sono occasione di dibattito e riflessione sul mondo in cui viviamo, eppure neanche Karl Marx avrebbe mai pensato che una storia potesse riproporsi infinite volte, e sempre in forma di tragedia. Così accade da poco più di una decina di lustri in quella parte del mondo che è la Palestina, nome usato dagli scrittori greci antichi per indicare la regione tra la Fenicia e l’Egitto.
Cosa c’è infatti di più tragico della contemporaneità tra una festa di gala con invitati da tutto il mondo e l’uccisione di più di 5 dozzine di ragazzini disarmati, a soli 50 km di distanza? Così è accaduto pochi giorni fa, una tempesta perfetta con un regista d’eccezione, il Presidente degli Stati Uniti d’America. Era già sufficiente il fatto che nella stessa data gli israeliani festeggiassero il 70° anniversario della nascita del loro Stato mentre i palestinesi ricordavano la Nakba. Già durante tutti i venerdì dell’ultimo mese, al confine tra Gaza e Israele, decine di migliaia di protestanti disarmati hanno manifestato per il “diritto al ritorno” e sono stati messi sotto il fuoco dei cecchini del Tsahal con decine di morti e molti più feriti. Una protesta che ne contiene un’altra: la striscia di Gaza è un fazzoletto di terra di 40kmq, nel quale circa 2mln di persone da 11 anni vivono sotto un blocco totale e a cui è negata la possibilità di movimento, con il 95% di acqua non potabile, 4 ore di elettricità al giorno, per metà disoccupati, con la metà dei bambini malati di anemia. È una prigione a cielo aperto, è già un ottimo motivo per protestare, senza bisogno che «Hamas paghi i manifestanti» o che venga «ordinato loro dalle Moschee di scagliarsi contro i proiettili», così come senza alcun senso del ridicolo o di indipendenza professionale hanno riportato alcune testate nazionali. In questo delicatissimo quadro irrompe Donald Trump con la decisione di spostare l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme come preludio del riconoscimento internazionale di Gerusalemme quale capitale dello Stato ebraico, vera e propria ossessione per ogni premier israeliano che si rispetti.
Per molto meno le cancellerie di tutto il mondo sarebbero insorte, si sarebbero usate parole dure e argomenti fondati, sarebbe stato citato il diritto internazionale e interrogate le Nazioni Unite, financo la leva delle sanzioni internazionali sarebbe stata utilizzata. Invece – mentre «Rachele piange i suoi figli e rifiuta di essere consolata, perché non sono più» – a prevalere è il silenzio generale della comunità internazionale, ripetizione infinita alla quale assistiamo da troppi decenni e che, assicurando l’impunità ai responsabili di quanto accade, ne sancisce la legittimità a proseguire. È nel nome della Palestina che si sta frantumando qualsiasi senso della pìetas così come di una qualsivoglia politica estera della Ue. La forma sarà comunque rispettata: qualche lieve sussurro che parla di «uso sproporzionato della forza», una convocazione del Consiglio di sicurezza dell’Onu che deplorerà l’accaduto ma che sarà costretto all’inazione per l’immancabile veto. Sarà l’ennesima dimostrazione che l’accordo tiene, l’ibrida alleanza tra Israele, Stati Uniti e Arabia Saudita contro il comune nemico, l’Iran, vale pure qualche incidente di percorso ma il mandato è che bisogna coprirsi l’un l’altro. Le grandi manovre per isolare e colpire Teheran sono cominciate: l’uscita degli Usa dall’accordo sul nucleare, così come la conferenza stampa di Netanyahu che ‘dimostrava’ la prosecuzione su scala industriale dell’arricchimento dell’uranio in siti segreti da parte dell’Iran.
Stante l’impassibilità della comunità internazionale sembra che non ci siano sbocchi… Eppure si potrebbe richiamare il proprio ambasciatore per informare il Ministero degli Esteri su quanto sta accadendo, così come fatto dallo Stato del Sud Africa. È un’azione di una certa gravità nelle relazioni tra due stati che può essere tuttavia giustificata dalla gravità di quanto successo e che non deve essere considerata come una misura estesa nel tempo: non si tratta infatti di interrompere le relazioni diplomatiche con Israele, né di chiudere l’ambasciata a Tel Aviv, ma solo di fare come già si è fatto con l’Egitto per la tragica vicenda di Giulio Regeni. Così come si potrebbero interrompere le collaborazioni militari con le forze armate di Tel Aviv o evitare di far partire la più importante corsa ciclistica del proprio Paese dalla stessa Città luogo di annosa contesa tra due popoli che non trovano pace.
Si tratta quindi di avere un pizzico di coraggio in più, per sottrarsi all’ineludibile, a quella forza oscura che attrae verso la ripetizione infinita di questa storia in chiave tragica, per evitare che le scintille facciano divampare un fuoco inestinguibile.